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Caso Moro, i documenti americani confermano l’incriminazione di Pieczenik

La corte della Florida si appella al trattato di mutua assistenza esistente fra Italia e Stati Uniti per procedere all’interrogatorio dell’ex consigliere di Cossiga

di Simona Zecchi pubblicato il 05/06/14 su Lettera35

Steve Pieczenik, l’ex analista dell’antiterrorismo Usa coinvolto nell’omicidio del presidente della Dc Aldo Moro, ha pubblicato sul suo sito i documenti che confermano l’incriminazione, di cui Lettera35 ha riferito nei giorni scorsi, formulata nei suoi confronti dalla giustizia americana, dopo la rogatoria che la magistratura italiana ha promosso per sentirlo in qualità di testimone.

Dai toni e dalle parole usati nell’intervista rilasciata ad Alex Jones il 2 giugno, traspariva la contrarietà di Pieczenik verso Obama e la sua attuale politica estera, ponendo a confronto questa con l’ordine da lui eseguito, proveniente dall’allora amministrazione Carter, come inviato per risolvere il caso Moro. Con la sua tardiva ammissione del 2008 al giornalista francese Emmanuel Amara, nel libro Abbiamo ucciso Aldo Moro, Pieczenik affermò di essere stato parte dell’omicidio, rivelando, così, una notizia di reato. E proprio quanto contenuto nel libro avrebbe spinto il pm della Procura di Roma Luca Palamara, titolare di un filone d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio dello statista democristiano, ad avviare degli accertamenti e a recarsi negli Stati Uniti per sentire Pieczenik.

La pubblicazione dei documenti sembra essere in linea con l’atteggiamento dell’indagato. Ciò non toglie che questi, identificati da un numero d’ufficio (case No. 14-21380-MC-Altonaga) e provvisti di note a penna presumibilmente dello stesso Pieczenik, siano autentici. I documenti pubblicati sono in tutto due: il primo [leggi], datato 17 aprile 2014, proviene direttamente dal giudice distrettuale della Florida, Cecilia Altonaga, ed ha per oggetto la “Richiesta della Repubblica italiana (il termine Repubblica manca per un refuso ma è presente nel secondo documento con lo stesso oggetto di comunicazione, ndr) rispondente al trattato fra gli Stati Unti d’America e la Repubblica italiana in materia di mutua assistenza su questioni criminali riguardanti Aldo Moro”. Il secondo [leggi], datato 22 aprile 2014, proviene dal dirigente della procura della Florida Brian K. Frazier, che intima a Piecznik di comparire nel suo ufficio il 27 maggio.

La dicitura presente nell’oggetto della prima richiesta, quella proveniente dal giudice distrettuale, non ha una precisa sintassi perché deriva chiaramente da un formato standard: “in the Matter of unknown” (ossia relativamente a… sconosciuto), al quale viene poi aggiunto tra parentesi il nome di Aldo Moro. Nella richiesta del procuratore distrettuale Frazier invece l’oggetto è più esplicito e si riferisce propriamente al caso Moro.

Il primo documento è di fatto l’autorizzazione a procedere e la nomina di Brian Frazier ad emettere il mandato di comparizione nei confronti di Pieczenik, chiamato a fornire testimonianza in merito a presunte violazioni criminali riguardanti il caso Moro, come prevede il patto di mutua assistenza in materia criminale fra Stati Uniti e Italia. La comunicazione che Frazier invia a Pieczenik si conclude con l’ammonimento a non negare la sua disponibilità a testimoniare, cosa che comporterebbe conseguenze penali.

Certo la richiesta della procura italiana appare rivolta solo ad individuare ulteriori notizie di reato provenienti da Pieczenik. Per questo anche la giustizia americana si dimostra cauta e utilizza il termine “presunte” (alleged) nella definizione delle accuse formulate. Tuttavia è davvero possibile che la magistratura italiana continui a definire Pieczenik un semplice testimone dei fatti?

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L’Editoria su Pier Paolo Pasolini: come riuscire a districarsi

Articolo pubblicato sul sito di Notte Criminale il 26/12/11

di Simona Zecchi – PREMESSA DI OGGI 18/03/14

Scrissi l’articolo che segue, e che porta il titolo sopra, a fine dicembre del 2011 quando ancora non erano stati dati alle stampe altri due importanti contributi: “Frocio e basta” a cura di Carla BenedettiGiovanni Giovannetti di “Effigie Edizioni” e i molteplici contributi contenuti in un numero monografico de “I Quaderni de L’Ora” (<<Ila Palma Edizioni Palermo>>) dei direttori Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza nel quale è presente anche l’inchiesta svolta dalla sottoscritta, Simona Zecchi, e dalla collega Martina di Matteo. Inedita e ultima in ordine di “apparizione”, questa, dal titolo “Viaggio nella notte all’idroscalo”. L’inchiesta, senza pretese esaustive proprie di un lavoro giornalistico  totale  normalmente con tesi acclusa, fotografa e in parte riscrive la dinamica immediatamente successiva alla mattanza di cui fu vittima Pier Paolo Pasolini, quella notte fra il 1 e il 2 novembre del 1975. Getta così  luce sul ruolo di alcuni personaggi da sempre ritenuti in qualche modo legati a quella notte, dà un’ipotesi di dinamica  (suffragata tuttavia da diversi elementi) infine, contiene una rivelazione altrettanto inedita riguardante un faldone che conterrebbe la documentazione scomparsa tra le carte di Pasolini.

Il libro di Effigie Edizioni oltre a dare un proprio sguardo e punto di vista su motivi e mandanti, riconducibile  secondo gli autori alla tesi più  accreditata finora ossia il collegamento fra le morti di Enrico Mattei, Mauro De Mauro e Pasolini (la quale come leggerete più avanti fu resa nota e sviluppata  dai giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza) , si inoltra in un interessante viaggio quasi mai esplorato dalla saggistica immane sulla morte del poeta, ossia: in quel mondo della cultura e dell’intellighentia, soprattutto di sinistra, che ha contribuito per molti aspetti a dare ragione a chi continua a ripetere come un mantra che la morte del letterato e regista fu solo conseguenza della vita che conduceva. Certo a sinistra questo lavoro di “affossamento” viene svolto con più arguzia e anche per certi aspetti convinzione accumulatesi via via negli anni (qualcuno anche per diretta conoscenza dello scrittore) mostrando però al contrario una conoscenza non  parziale bensì  esclusiva di un aspetto soltanto del mondo, le opere e il suo significato di Pasolini. E’ come affrontare  un lavoro d’inchiesta giornalistica con una tesi già in mente in partenza, cosa che porta a scartare automaticamente tutto ciò che non ci convince e per questo comunque parziale e spesso fuorviante.

A dicembre infine su due quotidiani nazionali, rispettivamente “Il Tempo” e “Il Manifesto” si sono aggiunte alcune novità sul caso: la prima riguardante gli innumerevoli testi sentiti dalla Procura di Roma, che ha riaperto l’inchiesta già dal 2010 (titolare il sostituto prcuratore Francesco Minisci), indiscrezione questa in parte smininuita e smentita dallo stesso avvocato Maccioni qualche giorno dopo alla sottoscritta e alla Di Matteo in un articolo su Il Manifesto di più ampio respiro che comprendeva una lunga intervista a Pino Pelosi. L’intervista approfondiva alcuni fatti senza dar modo al Pelosi  di sfuggire a determinati assunti ormai incontrovertibili e soprattutto i protagonisti che avrebbero partecipato all’agguato e che venivano ben tratteggiati, quasi indicandone l’identità. Protagonisti provenienti da un mondo ben preciso fatto di giornalisti e avvocati in odore di P2 ed eversione nera accompagnati da un mondo altro vicino a Pasolini che in qualche modo si rese complice dell’agguato e delle sue conseguenze. Pelosi è per sua scelta ormai, per certi versi, inattendibile ma alcuni fatti non li ha mai smentiti e sono i fatti che danno il contorno se non la sostanza di ciò che accadde.

Oggi data l’uscita dell’intervista rilasciata dall’avvocato Stefano Maccioni (l’avvocato che per primo, insieme alla criminologa Simona Ruffini, fece riaprire l’indagine con nuovi elementi da cui ripartire), riguardante l’imminente chiusura dell’inchiesta giudiziaria ripropongo questo percorso nella saggistica sulla morte di Pasolini che spero possa essere d’aiuto almeno in buona parte sul lavoro spesso immane di giornalisti e saggisti che sempre hanno affrontato difficoltà, opposizioni e sacrifici per dare un contributo al disvelamento della verità. certo  non tutto, come accade nella norma, può essere provato e verificato ma gli indizi (che non sono mai prove) delineano un contesto politico, culturale  e sociale che ha segnato la vita repubblicana di questi ultimi 40 anni, nel quale la morte di Pasolini comunque rientra. Oggi lo scrittore non sarebbe probabilmente più vivo,  chissà, ma è certo che l’avremmo avuto tra noi per molto molto tempo ancora e con lui la sua voce critica e alta che ci spinge  a raccogliere gli elementi della realtà che ci occorre intorno e collegarli tra loro per andare “oltre il tessuto superficiale della cronaca e scoprire il cancro come dei chirurghi”.

 ViscaPier Paolo Pasolini – Una Morte Violenta”, (Castelvecchi, 2010) l’inchiesta della prima cronista sul posto la mattina del 2 novembre 1975, Lucia Visca; “Io so…come hanno ucciso Pasolini” (Vertigo Edizioni, 2011) di Pino Pelosi, con il ghost-writing del regista Federico Bruno e l’avvocato Alessandro Olivieri; “Il Patto” (2011) un audio-documentario sulla riapertura delle indagini, del documentarista Roman Herzog, “Nessuna Pietà per Pasolini” (Editori Internazionali Riuniti, 2011) del giornalista Valter Rizzo, l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini.

Sono i più recenti contributi dati in stampa che affrontano quella dinamica a forma di matassa che ha avvolto la morte di Pasolini; una matassa che continua a riavvolgersi ogni giorno, ogni anno e a ogni anniversario della morte dell’intellettuale scippato all’Italia  ormai 36 anni fa.

Ore 7.00 del 2 novembre 1975: inizia tutto da lì l’assalto mediatico. Una telefonata del brigadiere di Ostia avverte la cronista che si occupava del litorale romano per Paese Sera, Lucia Visca:<<Abbiamo un morto all’idroscalo. Interessa?>>. È la prima giovane penna  che deve marcare stretto il commissariato di zona e fare da spalla alle firme più importanti, a raccontare in un pamphlet/inchiesta quelle prime ore dove già tutti i misteri erano accaduti. Fino al 3 novembre 1975 ore 8.35 in cui il quotidiano riporta i fatti della notte prima ma senza la sua firma: come l’iter scandito di allora voleva, la gavetta prima e sempre. Visca come tutti sta ancora attendendo le risposte sul movente che ha mosso quelle mani sul corpo di Pasolini.

Il libro di Pelosi, presentato a Roma il 28 ottobre scorso dove fu protagonista un’incursione particolare, quella del fotografo di Pasolini, Dino Pedriali: affermazioni per chiarire, fare distinguo e riuscire ad avere una piccola parte in questa storia affollata di personaggi. Il libro, dicevamo, è l’ultima confessione sempre scevra dell’ultima vera verità, come lo stesso autore e protagonista di quella notte di sangue, Pino Pelosi,  scrive nella premessa:<< Mentre leggete, cercate anche di intuire il non detto, quello che ancora oggi non si può rivelare.>> Pelosi rivela alcuni fatti che, per chi segue questa storia da un po’ di tempo e a a vario titolo, sono spesso dati per scontati perché a volte presenti negli atti processuali acquisiti negli anni; oppure perché già rivelate prima ma senza il crisma della confessione, magari a mezza bocca oppure riferite da altri “che sanno”.

Il patto

Poi l’audio-documentario di Roman Herzog “Il Patto”, che riapre la questione dal punto di vista giudiziario e col solo ausilio delle voci (da quella di PPP, Alberto Moravia, Ettore Scola o persino i ragazzi dell’Idroscalo e del cugino di Pasolini Guido Mazzon, il cui legale Stefano Maccioni, oltre ad essere il co-autore del libro citato prima è anche stato il fautore, insieme a Simona Ruffini, della riapertura delle indagini nel 2010 su richiesta depositata nel 2009.) Il documento parte dalla dichiarazione del senatore Marcello Dell’Utri (PDL). La dichiarazione viene ripresa su molti quotidiani:<<Ho incontrato una persona che non conoscevo in una pubblica manifestazione; mi si è avvicinato mostrandomi una cartelletta in cui c’era dentro un capitolo di “Petrolio” e chiedendomi se fossi interessato. L’ho aperta e ho visto una serie di fogli in carta velina battuti a macchina con correzioni a penna: “Lampi su Eni” era il titolo; poiché volevo leggerlo lo invitai a passare nella mia biblioteca il giorno dopo ma lui non è più passato>>. Il racconto sulla riapertura delle indagini prosegue con l’intervento di Walter Veltroni e la risposta sul Corriere dell’ex Ministro della Giustizia Angelino Alfano. Una lettura questa un pò riduttiva sull’input che ha dato il LA alla riapertura delle indagini, visto che quello vero fu dato da Maccioni e Ruffini; il punto è che effetto mediatico e verità dei fatti spesso si sovrappongono e mescolandosi danno soluzioni diverse.

Tuttavia il documentario è molto interessante per i contributi dei vari protagonisti che si avvicendano: giornalisti, avvocati, intellettuali. Tutte testimonianze significative del tempo e dei tempi trascorsi senza le quali è difficile districarsi per capire l’intera vicenda: anche quando queste testimonianze non raccontano il vero, o raccontano solo il verosimile o quello che credono di sapere.

“Il Patto” pone la questione, documentata, sul motivo che ha spinto Dell’Utri a fare quella dichiarazione, le cui conseguenze  hanno visto l’ultimo atto proprio in questi giorni, quando il procuratore Antonio Ingroia ha chiamato in Procura il senatore per capire meglio questo aneddoto, in riferimento alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro nel 1970. Com’è noto, infatti, questa scomparsa viene collegata a quella dell’ex presidente dell’Eni Enrico Mattei e a quella di P.P. Pasolini. Lo hanno dimostrato in un’inchiesta giornalistica Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (“Profondo nero”, Chiarelettere 2008) e l’hanno presa in seria considerazione in primis il procuratore di Parma Vincenzo Calia e appunto Antonio Ingroia: in particolare su quanto emerso con riferimento al manoscritto “Petrolio” e al libro “Questo è Cefis” di Giorgio Steimetz; ovvero la tesi secondo la quale lo scrittore ucciso sarebbe venuto a conoscenza dei mandanti dell’omicidio Mattei indicandoli nel proprio romanzo “Petrolio”.

profondo nero

“Nessuna Pietà…” di Rizzo, Maccioni e Ruffini contiene due punti essenziali nella storiografia delle piste che vogliono spiegare quel delitto efferato, compiuto in un momento di compromesso storico imminente poi sfumato tra PCI e DC, in un momento in cui le contrapposizioni violente fra“rossi” e “neri” e gli interessi economici alla base di tutto non accettavano le domande di chi voleva capire e per questo indagava anche indietro nel tempo, come Pasolini.  Innanzitutto la pista “Catania” più volte anch’essa suggerita nel corso del tempo. La pista siciliana  viene accennata nel Prologo con già 4 protagonisti e a distanza di 10 anni dalla morte del regista: tre giovani e un letterato su un espresso che da Catania portava verso Roma. Una pista che viene ripresa in un capitolo  nel quale l’identità del letterato non viene rivelata per richiesta dello stesso; una conversazione raccolta dal giornalista di Chi l’ha visto Valter Rizzo, che filmò anche l’intervista a Pelosi andata in onda nella trasmissione nel 2009. L’uomo racconta della Catania vista da Pasolini che utilizzava come rifugio dagli “amici romani” (anche, a suo dire, da Laura Betti attrice e cantante italiana molto vicina a Pasolini e dalla quale difficilmente però lo scrittore si voleva separare; la stessa che ha passato gli ultimi anni della sua vita a prendersi cura del Fondo istituito per il suo amico e collega). A Catania, rivela l’uomo, Pasolini  cercava storie e volti per i suoi film, indagava a livello sociologico sui ragazzi prestati al fascismo imperante di quegli anni. Una Catania in cui Pasolini sembrerebbe aver vissuto un’altra delle sue vite. L’uomo parla delle contraddizioni e dei lati oscuri del poeta per averlo conosciuto in ambito universitario, appunto 30 anni prima, e del suo rapporto irrisolto con l’omosessualità. Tuttavia, negli anni di cui si parla nel libro questo rapporto che, secondo l’uomo, Pasolini cercava di espiare tramite il pagamento delle prestazioni, Pier Paolo lo aveva già risolto, come si evince dalle lettere pubblicate dal biografo e cugino Nico Naldini (“Vita attraverso le Lettere” Einaudi 1993) e scritte tra il 1955 e il 1975 poco prima di morire: “La mia omosessualità non è più un Altro dentro di me” – Lettera a Franco Farolfi, 1948; “come la libidine, anche la purezza è inesauribile: si ricostituisce dentro per conto suo” – aprile 1954; infine più esplicita già prima nel 1950 a Silvana Mauri: ”non m’è ne mi sarà sempre possibile parlare con pudore di me; e mi sarà invece necessario spesso mettermi alla gogna, perché non voglio più ingannare nessuno”. Dunque, lo spartiacque era avvenuto già durante il passaggio letterario e geografico fra il mondo friulano e quello romano della borgata dove Pasolini esprimeva la sua omessualità ormai senza più “pudore”.  Certo i movimenti dei marchettari catanesi utilizzati come picchiatori e che si spostavano da Catania verso Roma va verificato e collegato con la morte di Pasolini se si vuole inserire questa vicenda con quella di Enrico Mattei. Certo l’aereo è partito da Catania e lì verosimilmente sabotato. Ma Pasolini è stato ucciso a Roma sul litorale laziale e il territorio, soprattutto in quegli anni ha un significato e una simbologia determinanti. L’altro punto riguarda il verbale “scomparso” o “dimenticato”: quel verbale in cui il ristoratore Panzironi nel riferire agli inquirenti della cena consumata al Biondo Tevere, fa un identikit della persona che accompagnava lo scrittore diversa da quella di Pelosi. Capelli lunghi biondi invece di ricci e scuri (Pelosi) e subito dopo, in modo contraddittorio, conferma invece l’identità riferita al Pelosi. Un verbale di istruzione sommaria non sconosciuto, già diffuso attraverso un libro di autori vari con la prefazione di Giorgio Galli: “Omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo” (Kaos, 1992) un estratto di atti processuali ripresi dalle inchieste fino alla sentenza della corte di cassazione. Tra i verbali molte le cose rimaste senza approfondimenti veri, dunque, questo verbale rimane un’incongruenza tra tante, seppure gli spunti si rivelano interessanti e la costruzione della vicenda tutta contribuisce a fare chiarezza su alcuni aspetti.

KAOS PASOLINI

È doveroso citare tra gli scritti che vogliono riportare l’intellettuale alla memoria collettiva soprattutto dei ragazzi il libro di Fulvio AbbatePier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi” (Dalai Editore, 2011). Un testo a metà tra il racconto biografico e i pezzi amarcord che rivelano più di qualsiasi opinione  il peso culturale e umano rappresentato da Pasolini.

abbate

Resta forse difficile districarsi ma allo stesso tempo il contributo di tutti è rivelatore dell’importanza che questa vicenda ha nella storia del nostro paese e insieme può fungere da ausilio tecnico e  culturale alle indagini in corso per la prima volta rimaste aperte e non seppellite di fretta.

“Pier Paolo Pasolini – Una Morte Violenta”, (Castelvecchi, 2010) l’inchiesta della prima cronista sul posto la mattina del 2 novembre 1975, Lucia Visca; “Io so…come hanno ucciso Pasolini” (Vertigo Edizioni, 2011) di Pino Pelosi, con il ghost-writing del regista Federico Bruno e l’avvocato Alessandro Olivieri; “Il Patto” (2011) un audio-documentario sulla riapertura delle indagini, del documentarista Roman Herzog, “Nessuna Pietà per Pasolini” (Editori Internazionali Riuniti, 2011) del giornalista Valter Rizzo, l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini.
 Sono i più recenti contributi dati in stampa che affrontano quella dinamica a forma di matassa che ha avvolto la morte di Pasolini; una matassa che continua a riavvolgersi ogni giorno, ogni anno e a ogni anniversario della morte dell’intellettuale scippato all’Italia ormai 36 anni fa.
 Ore 7.00 del 2 novembre 1975: inizia tutto da lì l’assalto mediatico. Una telefonata del brigadiere di Ostia avverte la cronista che si occupava del litorale romano per Paese Sera, Lucia Visca:< Abbiamo un morto all’Idroscalo. Interessa?>. È la prima giovane penna che deve marcare stretto il commissariato di zona e fare da spalla alle firme più importanti, a raccontare in un pamphlet/inchiesta quelle prime ore dove già tutti i misteri erano accaduti.
Fino al 3 novembre 1975 ore 8.35 in cui il quotidiano riporta i fatti della notte prima ma senza la sua firma: come l’iter scandito di allora voleva, la gavetta prima e sempre. Visca come tutti sta ancora attendendo le risposte sul movente che ha mosso quelle mani sul corpo di Pasolini.
 Il libro di Pelosi, presentato a Roma il 28 ottobre scorso dove fu protagonista un’incursione particolare, quella del fotografo di Pasolini, Dino Pedriali: affermazioni per chiarire, fare distinguo e riuscire ad avere una piccola parte in questa storia affollata di personaggi. Il libro, dicevamo, è l’ultima confessione sempre scevra dell’ultima vera verità, come lo stesso autore e protagonista di quella notte di sangue, Pino Pelosi, scrive nella premessa: Pelosi rivela alcuni fatti che, per chi segue questa storia da un po’ di tempo e a a vario titolo, sono spesso dati per scontati perché a volte presenti negli atti processuali acquisiti negli anni; oppure perché già rivelate prima ma senza il crisma della confessione, magari a mezza bocca oppure riferite da altri “che sanno”.

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Diaz –Don’t Clean Up This Blood

articolo uscito su Notte criminale il 19/04/2012 di Simona Zecchi

Dopo anni di silenzio condito solo da qualche informazione giudiziaria tra l’omicidio Giuliani, le responsabilità dei manifestanti, e i poliziotti coinvolti nella “macelleria messicana”, esce il film sugli eventi che più hanno insanguinato il G8 2001. Il blitz alla Scuola Diaz e i soprusi alla caserma Bolzaneto avvenuti la notte del 21 luglio che ha prodotto 93 vittime. Una visione per stomaci forti ma necessaria

Il cinema che scava nella memoria e tra le coscienze, dopo anni di silenzio interrotto da una serie di produzioni commerciali e alcune dimostrazioni d’autore, torna finalmente dirompente: film politici (come Romanzo di una Strage di Marco Tullio Giordana, uscito nelle sale da pochi giorni) o a prova di attualità come in Acab –All Cops are bastard(…) Generi diversi tra loro ma che scandagliano nei fatti torbidi di cronaca e di storia e la cui parola FINE ancora non appare dopo i titoli di coda infinita qual è quella della cronaca giudiziaria. 

“Diaz – Non pulite quel sangue”, per la regia di Daniele Vicari e la produzione di Domenico ProcacciFandango – già premiato al Festival di Berlino (erroneamente tradotto in Italia all’infinito – non pulire – e invece no la frase è un’esortazione corale a non rimuovere quella “macelleria” dalle coscienze, quel cumulo di sangue sparso). 

E “macelleria messicana” è stata l’espressione precisa usata dal vice questore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma Michelangelo Fournier tra i 28 poliziotti imputati (su 400 circa che hanno fatto irruzione nelle scuole Diaz, Pertini e Pascoli di Genova mentre era in corso il G8), che in parte ammise le violenze ma che cercò di sminuire le responsabilità personali dei suoi uomini su ciò che è accaduto. 

Fournier allora guidava il VII gruppo i cui uomini, insieme a Digos e agenti della mobile, irruppero nella Diaz mentre i carabinieri cinturavano l’edificio. Fournier, dichiarerà ai PM nel corso delle prime indagini: “Intorno alla ragazza per terra c’erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze” (Fonte La Repubblica 13-06-2007). 

Questa scena nel film viene letteralmente trasposta da Vicari, con l’interpretazione asciutta ma efficace nel linguaggio del corpo e degli sguardi di Claudio Santamaria, che riesce a trasmettere l’orrore da lui percepito al momento del suo arrivo, quando i suoi uomini avevano già usato quasi tutta la forza nel tonfa su ragazzi, anziani, giornalisti e passanti decisi a restare a dormire quella notte.

Ma Fournier/Santamaria non è il buono e probabilmente non lo è stato nemmeno nelle intenzioni del regista Vicari. Fournier/Santamaria è solo chi aveva forse più lucidità di tutti e un briciolo di coscienza per comprendere che la rabbia che si era anteposta alla missione (quale poi ancora non è chiaro nonostante siano passati 11 anni) aveva preso la mano e accecato gli occhi dei suoi uomini. 

Certo del personaggio si registrano anche le intuizioni da lui avute, nel ricevere gli ordini, sulle reali intenzioni del vertice che, come anche gli atti giudiziari hanno registrato, ha preparato quel blitz sin nei particolari, alla ricerca di ‘feroci’ manifestanti (i Black Bloc su tutti, il cui ruolo però nel film non è descritto a pieno). 

Il film è un susseguirsi sapiente di flashback narrativi, a seconda dei punti di vista dei protagonisti: il giornalista italiano della Gazzetta di Bologna/ Elio Germano, lo stesso vice-questore, l’anarchica tedesca Alma, testimone reale che non ha voluto comparisse il suo vero nome, interpretata dalla bravissima Jennifer Ulrich: l’anarchica decide di occuparsi dei dispersi insieme a un italiano e le torture da lei subite vengono raccontate con l’effetto di tanti pugni allo stomaco. 

Torture dimostrate ma non punite perché il reato in Italia non è contemplato nel nostro codice penale. E’ un movimento, quello delle scene, capace di catturare il ruolo di tutti senza fare di ogni erba un fascio lasciando incollati al video non per il gusto della violenza ma per il diretto rapporto che la memoria di quei giorni scatena e fa riflettere. 

Oltre ai flash back narrativi, le immagini si incastrano e alternano con i filmati del tempo quelli riportati dai manifestanti stessi attraverso videocamere e telefonini, anche lì altro punto di vista il cui filtro personale però viene reso oggettivo dalle violenze che scorrono da entrambe le parti durante la manifestazione; allo stesso modo le violenze di una sola parte presso la Scuola Diaz nella “zona rossa” sono rese oggettive e obiettive perché uniche. 

E’ solo grazie a questi filmati, infatti, se qualcuno dei responsabili nella realtà ha pagato. Come ad esempio quando nel 2002 tramite alcune foto e riprese viene svelata la reale provenienza delle molotov “trovate” durante il blitz. E’ il vice questore Pasquale Guaglione a riconoscerle rispondendo agli interrogatori. 

L’inchiesta, portata coraggiosamente a termine dal giornalista inglese, Mark Covell, vittima stessa di quella notte, viene ribattezzata “London Investigation”. Nel film il ruolo della stampa ha il volto di Elio Germano, Luca che decide di non rimanere dietro la scrivania della redazione e va a sue spese, perché non inviato ufficiale, a seguire gli eventi dopo che la morte del 23enne Carlo Giuliani aveva catalizzato la massima attenzione della stampa tutta. 

Poi c’è Nick/Fabrizio Forgione un manager che si interessa di economia solidale, arrivato a Genova per seguire il seminario dell’economista Susan George il cui video compare spesso durante il film a sottolineare i contenuti e le contrapposizioni interni al G8. E infine Etienne e Cecile i due anarchici francesi protagonisti delle devastazioni di quei giorni che nella notte fatidica si salvano nascondendosi in un bar lì vicino. 

Le loro esistenze si incontrano tutte dando un quadro eterogeneo delle varie categorie coinvolte dove l’unica vincitrice resta la violenza. Il racconto di Vicari non fa ovviamente un excursus approfondito sulle iniziative che erano state indette in quei giorni (tra il 16 e il 21 luglio) come contestazione al vertice in corso dal Genoa Social Forum e per questo il suo leader, Agnoletto, ne ha fatto una critica netta denunciando le mancanze del film. 

Non lo fa perché il focus del film era un altro, dichiarato, e pretendere che tutti gli aspetti siano passati sotto l’ingrandimento del racconto cinematografico è utopico. Un regista sceglie un fatto e ne racconta i risvolti: una libera interpretazione anche se in questo caso per il fatto in sé poiché basato sugli atti giudiziari molto precisa e vicina alla realtà. 

Il regista ha affermato che la consegna della sceneggiatura all’attuale capo della Polizia Antonio Manganelli è stato un atto di trasparenza, come a voler dire:”non nascondiamo le nostre intenzioni a nessuno”. L’incontro richiesto dal produttore a Manganelli non è tuttavia seguito.  Resta però almeno curioso se non inquietante l’aneddoto sulla circolare interna emessa dal Ministero il 15 marzo e pubblicata nel sito del Sindacato lo scorso 3 aprile che esprimeva il divieto agli agenti di rilasciare interviste se non preventivamente autorizzate. (Documento dal sito COISP) 

ministero-interni-circolare

 

Il film è stato quasi interamente girato in Romania, a Bucarest, a causa dell’accoglienza ostile che ha incontrato in Italia, come dichiarò tempo fa il produttore Domenico Procacci visto che né Rai né Mediaset con cui Procacci collabora abitualmente hanno dato il loro appoggio. 

Nel film mancano i nomi dei vertici della Polizia coinvolti: ll capo dell’anticrimine Francesco Gratteri, l’ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, l’ex vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi (oggi all’Agenzia per le informazioni e la sicurezza interna), l’ex dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola (ora vicequestore vicario a Torino) l’ex vicecapo dello Sco Gilberto Caldarozzi, l’allora capo della Polizia Gianni de Gennaro (attuale direttore dell’Asi, l’organismo che coordina i servizi segreti dell’Aisi e dell’Aise) che la sentenza dello scorso giugno aveva condannato a un anno e 4 mesi di reclusione per istigazione alla falsa testimonianza, ribaltando l’assoluzione in primo grado. Poi l’esito finale a Novembre 2011 la cassazione assolve De Gennaro e Mortola “perché il fatto non sussiste”

Se è vero che le sentenze non si contestano è vero altresì che si possono giudicare come quanto meno insufficienti a spiegare, a far capire ed elaborare come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, secondo quanto dichiarato da Amnesty International sul massacro alla Diaz e le torture alla caserma Bolzaneto (come anche le note del film che scorrono ricordano) possa essere stata gestita come serie di episodi violenti di “poche mele marce” senza capo ma con titoli di coda ancora una volta non chiari.

Come non è tuttora chiara la vicenda del carabiniere Mario Placanica inizialmente accusato dell’omicidio Giuliani il cui ruolo se di vittima o carnefice rimane sfocato rendendo l’ingiustizia reale per tutti.

Aggiornamento Fatti al 3/01/14 : il 31 dicembre, sono stati arrestati gli ultimi due superpoliziotti:  Spartaco Mortola, ex capo della Digos genovese poi divenuto questore vicario di Torino, che dall’altro ieri dovrà scontare otto mesi di domiciliari nella propria abitazione.

L’altro è Giovanni Luperi, ex dirigente Ucigos nelle giornate della guerriglia, (“capo-analista dei servizi segreti e attualmente in pensione: per lui, della condanna definitiva a quattro anni, ne resta uno” da Il Secolo XIX).

INel pomeriggio del 30, invece, l’arresto era scattato anche per Francesco Gratteri, numero tre della polizia italiana prima della condanna, coordinatore d’indagini su attentati e latitanti. “È ora obbligato a un anno di domiciliari, potrà beneficiare come gli altri di alcune ore (2 o 4) di libertà durante il giorno e usare il telefono.” (da Il Secolo XIX)

oi c’è Nick/Fabrizio Forgione un manager che si interessa di economia solidale, arrivato a Genova per seguire il seminario dell’economista Susan George il cui video compare spesso durante il film a sottolineare i contenuti e le contrapposizioni interni al G8. E infine Etienne e Cecile i due anarchici francesi protagonisti delle devastazioni di quei giorni che nella notte fatidica si salvano nascondendosi in un bar lì vicino.
Le loro esistenze si incontrano tutte dando un quadro eterogeneo delle varie categorie coinvolte dove l’unica vincitrice resta la violenza. Il racconto di Vicari non fa ovviamente un excursus approfondito sulle iniziative che erano state indette in quei giorni (tra il 16 e il 21 luglio) come contestazione al vertice in corso dal Genoa Social Forum e per questo il suo leader, Agnoletto, ne ha fatto una critica netta denunciando le mancanze del film.
Non lo fa perché il focus del film era un altro, dichiarato, e pretendere che tutti gli aspetti siano passati sotto l’ingrandimento del racconto cinematografico è utopico. Un regista sceglie un fatto e ne racconta i risvolti: una libera interpretazione anche se in questo caso per il fatto in sé poiché basato sugli atti giudiziari molto precisa e vicina alla realtà.

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Oltre ai flash back narrativi, le immagini si incastrano e alternano con i filmati del tempo quelli riportati dai manifestanti stessi attraverso videocamere e telefonini, anche lì altro punto di vista il cui filtro personale però viene reso oggettivo dalle violenze che scorrono da entrambe le parti durante la manifestazione; allo stesso modo le violenze di una sola parte presso la Scuola Diaz nella “zona rossa” sono rese oggettive e obiettive perché uniche.
E’ solo grazie a questi filmati, infatti, se qualcuno dei responsabili nella realtà ha pagato. Come ad esempio quando nel 2002 tramite alcune foto e riprese viene svelata la reale provenienza delle molotov “trovate” durante il blitz. E’ il vice questore Pasquale Guaglione a riconoscerle rispondendo agli interrogatori.
L’inchiesta, portata coraggiosamente a termine dal giornalista inglese, Mark Covell, vittima stessa di quella notte, viene ribattezzata “London Investigation”. Nel film il ruolo della stampa ha il volto di Elio Germano, Luca che decide di non rimanere dietro la scrivania della redazione e va a sue spese, perché non inviato ufficiale, a seguire gli eventi dopo che la morte del 23enne Carlo Giuliani aveva catalizzato la massima attenzione della stampa tutta.

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Il cinema che scava nella memoria e tra le coscienze, dopo anni di silenzio interrotto da una serie di produzioni commerciali e alcune dimostrazioni d’autore, torna finalmente dirompente: film politici (come Romanzo di una Strage di Marco Tullio Giordana, uscito nelle sale da pochi giorni) o a prova di attualità come in Acab –All Cops are bastard, di cui vi abbiamo parlato qui a Notte Criminale.

 Generi diversi tra loro ma che scandagliano nei fatti torbidi di cronaca e di storia e la cui parola FINE ancora non appare dopo i titoli di coda infinita qual è quella della cronaca giudiziaria.
Diaz – Non pulite quel sangue, per la regia di Daniele Vicari e la produzione di Domenico Procacci – Fandango – già premiato al Festival di Berlino (erroneamente tradotto in Italia all’infinito – non pulire – e invece no la frase è un’esortazione corale a non rimuovere quella “macelleria” dalle coscienze, quel cumulo di sangue sparso).
E “macelleria messicana” è stata l’espressione precisa usata dal vice questore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma Michelangelo Fournier tra i 28 poliziotti imputati (su 400 circa che hanno fatto irruzione nelle scuole Diaz, Pertini e Pascoli di Genova mentre era in corso il G8), che in parte ammise le violenze ma che cercò di sminuire le responsabilità personali dei suoi uomini su ciò che è accaduto.

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Dopo anni di silenzio condito solo da qualche informazione giudiziaria tra l’omicidio Giuliani, le responsabilità dei manifestanti, e i poliziotti coinvolti nella “macelleria messicana”, esce il film sugli eventi che più hanno insanguinato il G8 2001. Il blitz alla Scuola Diaz e i soprusi alla caserma Bolzaneto avvenuti la notte del 21 luglio che ha prodotto 93 vittime. Una visione per stomaci forti ma necessaria – See more at: http://www.nottecriminale.it/piemonte/diaz-don-t-clean-up-this-blood.html#sthash.jUJlYTjf.dpuf
Dopo anni di silenzio condito solo da qualche informazione giudiziaria tra l’omicidio Giuliani, le responsabilità dei manifestanti, e i poliziotti coinvolti nella “macelleria messicana”, esce il film sugli eventi che più hanno insanguinato il G8 2001. Il blitz alla Scuola Diaz e i soprusi alla caserma Bolzaneto avvenuti la notte del 21 luglio che ha prodotto 93 vittime. Una visione per stomaci forti ma necessaria – See more at: http://www.nottecriminale.it/piemonte/diaz-don-t-clean-up-this-blood.html#sthash.jUJlYTjf.dpuf
Dopo anni di silenzio condito solo da qualche informazione giudiziaria tra l’omicidio Giuliani, le responsabilità dei manifestanti, e i poliziotti coinvolti nella “macelleria messicana”, esce il film sugli eventi che più hanno insanguinato il G8 2001. Il blitz alla Scuola Diaz e i soprusi alla caserma Bolzaneto avvenuti la notte del 21 luglio che ha prodotto 93 vittime. Una visione per stomaci forti ma necessaria – See more at: http://www.nottecriminale.it/piemonte/diaz-don-t-clean-up-this-blood.html#sthash.jUJlYTjf.dpuf

L’inchiesta avocata a Donadio sulle stragi Falcone-Borsellino e il Protocollo Fantasma

di Simona Zecchi

Se tutti i giorni del primo dell’anno fossero illuminanti come questo sarebbe sempre un bel giorno per il giornalismo.

Questo pensiero, da puro apripista per un post di un blog personale, può sembrare poco modesto ma in realtà è una provocazione perché le vicende che hanno percorso quasi tutto l’anno appena trascorso, riguardanti  l’inchiesta del titolo e il cosiddetto processo sulla trattativa stato-mafia hanno spesso rasentato l’onta del ridicolo e del puro depistaggio. E’ una provocazione anche verso giornalismo mainstream  di oggi spesso poco incline al ragionamento e al collegamento dei fatti perchè scomodo oppure troppo  fuori dai “canoni di pubblicazione”.

I Fatti dell’Anno. Vediamo un pò:  ad inizio anno, l’erede di un fantasma di un’epoca che fu (e che sembra mai tramontare) si rifà vivo: il Corvo. Una prima lettera anonima inviata all’attenzione del Pm Di Matteo lo avvisa che è monitorato da alcuni ‘uomini delle istituzioni’. Ne seguiranno altre nel corso dell’anno. Sembra però un altro tipo di “corvo”, non un alimentatore di veleni tra le procure, ma forse un investigatore che non ha mai accettato le logiche annebbiate di certi processi e certe indagini le quali spesso rimangono appese a un limbo infinito oppure finiscono in assurde archiviazioni;  il fantomatico scoop sulla ricomparsa dell’agenda rossa che in realtà era una parte di  parasole rossa che emergeva tra i resti fumanti di una delle auto blindate del magistrato Paolo Borsellino (La Repubblica maggio 2013); le varie diatribe durante le indagini preliminari per il processo sulla trattativa, via via proseguendo con gli arresti in merito alle indagini sulla strage di Capaci che sembravano suggellare la sola mano mafiosa nell’attentato (secondo anche le dichiarazioni della procura di Caltanissetta) assunzione che  poi invece fu smentita con la stessa inclusione nel registro degli indagati di “faccia da mostro” un ex poliziotto ormai in pensione il cui soprannome di tanto in tanto compariva nei vari filamenti dei misteri cuciti addosso allo Stivale (dalla protezione a Ciancimino Sr. alle morti dei due agenti Emanuele  Piazza e Nino Agostino). Faccia da mostro ora ha anche un nome Giovanni Aiello, che il padre di uno degli agenti morti (Vincenzo Agostino) avrebbe riconosciuto come colui che comparve per cercare il figlio, quando non in casa, pochi giorni prima della sua morte. La sua e quella della moglie in cinta. In mezzo a tutto questo, l’improvvisa avocazione al Pm Gianfranco Donadio dell’inchiesta sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio, che già nel lontano ’93 e su mandato dell’allora PNA Grasso, stava svolgendo un’inchiesta solitaria e parallela. E poi: la scomparsa del collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice a cui sono  succeduti nell’ordine: due memoriali e un nuovo arresto. Memoriali che sancivano la piena ritrattazione dell’ex pentito sulle precedenti dichiarazioni, le quali puntavano le accuse su una parte della magistratura antimafia ma soprattutto su Donadio. C’è un altro collaboratore ad oggi ritenuto affidabile   da ben 9 procure nazionali più una straniera (checché ne dica Nando dalla Chiesa che lo ha attaccato in ben due articoli- uno suo sul “Fatto Quotidiano” e un altro in cui era intervistato dal sito Stampo Mafioso): Luigi Bonaventura. Bonaventura sin dal 2007 collabora con i magistrati e svela crimini e misfatti anche politici che aveva raccontato prima ai giudici e poi ai media, così come  la “tecnica di avvicinamento” di soggetti appartenenti alla ndrangheta (e non solo) per indurre i “buoni” collaboratori a ritrattare, nonché il “programma” sui falsi pentiti. Bonaventura ha ricostruito con la sottoscritta in un articolo per Antimafia Duemila (qui)  , quello che può succedere a un collaboratore che vuole fare solo il suo dovere mentre è sotto il programma di protezione.

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(nella foto Luigi Bonaventura)

Le conseguenze. E di nuovo come contorno a tutto questo restano le conseguenze che non sono entusiasmanti: l’inchiesta di Donadio su eversione- nera-mafia e istituzioni come concorrenti tutti  nelle stragi di 20 anni fa, sfuma per sempre; la guerra tra procure se possibile diventa ancora più aspra, i giochi di potere e di complotto interni alle stesse non si fermano mai, le intercettazioni fra l’ex Ministro Mancino e il due volte Presidente della Repubblica Napolitano vengono distrutte come conseguenza del conflitto di attribuzione da lui stesso sollevato l’anno precedente (dimostrando cosi che qualcosa da nascondere l’avesse quanto meno, come controcanto alle sue continue chiamate a svelare tutte le verità della nostra storia…). Intanto l’avvocato Rosario Pio Cattafi personaggio che vive, stando alle indagini e alle accuse nella requisitoria, fra eversione nera, istituzioni più o meno deviate e massoneria, viene condannato proprio a fine anno 2013 nel processo “Gotha3”  con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Insomma non è un bell’anno né per l’antimafia (che tra l’altro si lascia “sfuggire” la possibilità di catturare Matteo Messina Denaro ma non era certo la prima volta: da Nitto Santapaola passando per Riina e Provenzano, la storia continua a ripetersi)  né tanto meno per la mafia militare: tra sequestri di beni per milioni di euro, condanne e arresti a iosa. E’ tempo di riorganizzazioni e di intese.

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Le inchieste. Poi proprio in questi giorni esce un libro di Walter Molino (giornalista di “Servizio Pubblico”): “Protocollo fantasma – Dossier silenzi e segreti di stato: strategia della tensione al tempo delle larghe intese” (Il Saggiatore, 2013) che non è l’unico sulla questione (il documento segreto ma conosciuto ormai da tutti su uno speciale protocollo fra DAP e Servizi segreti dal quale sono esclusi gli organi inquirenti ufficiali alias la magistratura): nel 2012 infatti la seconda edizione del libro di Maurizio Torrealta e Giorgio Mottola “Processo allo Stato” (Bur edizioni, novembre 2012) ne parla ampiamente. Ma il libro di Molino fa un altro lavoro (direi ottimo, a parte qualche licenza da romanziere in alcune parti: ma si sa alcune cose possono essere a volte solo raccontate come “fiction”) di collegamento fra tale documento e alcuni fatti che hanno lastricato le vie dei misteri italiani sulle vicende di mafia e non solo: dalla gestione della cattura di Provenzano, preceduta dalla vicenda Macrì-Cisterna-Vigna-Grasso e la prima tentata resa di zio Binnu nel 2003 (o asta al miglior offerente visto che lo Stato anche per ragioni politiche era pronto a pagare un mediatore 2 milioni di euro per farlo suo  dopo quasi 40 anni, allora, di fuga protetta o latitanza), fino appunto alla sempiterna trattativa stato mafia che in fondo include tutte queste vicende, sono parti di un tutto. All’interno anche una ricostruzione della vicenda della fuga di Lo Giudice  e l’inchiesta avocata a Donadio. Sono esposizioni di fatti e in questa parte Molino non collega apertamente l’esistenza del protocollo con la gestione del Lo Giudice. Però se è lecito ancora ragionare mi ha appunto illuminato su un punto cui sono giunta avendo seguito tutto e avendo parlato del doppio livello e di doppio commando nelle stragi di capaci (soprattutto) e Via D’Amelio partendo da Portella della Ginestra in un’intervista a Stefania Limiti sul libro uscito ad Aprile di  quest’anno: “Doppio Livello –  come si organizza la destabilizzazione in Italia” (Chiarelettere, 2013). Libro quindi che già prima di Molino e in maniera storico-giudiziaria dimostra come certe operazioni “sotto falsa bandiera” possano aver contribuito a cambiare gli eventi del nostro paese attraverso stragi depistaggi et similia. Alla presentazione del libro c’era per la prima volta il magistrato Donadio che pur non rilasciando specifiche dichiarazioni con la sua presenza ha firmato la sua esposizione (legittima perché comunque titolare di un’indagine e non lesiva di alcuna rilevazione d’ufficio). Il magistrato come spiego bene in quell’articolo aveva già parlato dell’inchiesta  in occasione di un’intervista per Rainews24 il 17 maggio 2012 ed era quanto meno evidente che l’inquirente non avesse molti amici a sostenerlo in questo lavoro. (Prova ne fu la fuga di notizie sulla sua relazione alla DNA con novità che riguardavano faccia da mostro soprattutto. Fuga di notizie perpetrata da due giornali “Il Sole24” e “L’Ora della Calabria” il 12 settembre scorso. Dei due giornali solo quest’ultimo tuttavia ha subito perquisizioni e indagini dalla Procura). Ma torniamo al Lo Giudice: la domanda, dopo quella fuga di notizie e prima ancora  con la fuga “fisica” dell’ex collaboratore, come dire… sorgeva spontanea: cosa poteva mai sapere un boss non di grande calibro (ma vicino ai Pelle-De Stefano) con la trattativa stato-mafia? Donadio lo aveva interrogato in merito proprio per la sua inchiesta, probabilmente perché il più “fresco” tra i collaboratori, che però come adombra un pò Molino pare che avesse iniziato già a collaborare in maniera non ufficiale prima. Fresco e quindi eventualmente più al corrente degli ultimi sviluppi e di qualche confidenza legata a fatti che tarvalicano i meri crimini della “mamma”. Vediamo cosa prevede questo benedetto Protocollo fantasma nel dettaglio? Scrive Molino:<< (…) cosiddetto Protocollo fantasma, un accordo vincolato dal segreto di Stato tra il Dap e l’ex Sisde per la gestione dei più importanti e pericolosi detenuti in regime di massima sicurezza. Un circuito informativo parallelo che ha consegnato di fatto le carceri ai servizi, tagliando completamente fuori la magistratura.>> Di questo protocollo, come continua Molino, sappiamo tutto (“interrogazioni parlamentari e inchieste giornalistiche”) ma nessuno lo ha mai visto, appunto  un protocollo fantasma ma operativo. Nel libro i protocolli sono due: uno riferito al dossier ricevuto dai magistrati della procura di Palermo dal “Corvo2”, l’altro quello specifico stilato e approvato da membri interni al Dap e istituzioni sulla gestione di detenuti importanti che ha anche un nome “leggero”, quello di farfalla. La farfalla si posa e non lascia tracce, mai nome fu più azzeccato.

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(nella foto Gianfranco Donadio)

Conclusioni. Lo Giudice viene arrestato nel 2010 e dopo pochi giorni si pente, come scrive giustamente Molino ricostruendo la sua storia dopo l’arresto. Cosa gli succede a un certo punto dopo che alcuni fatti da lui dichiarati erano stati riscontrati dalle indagini? Chi subentra e manipola “tagliando completamente fuori la magistratura” fino al punto da non sapere che già collaborasse (e in che modo poi?), fino a sporcare i lembi di chi indaga su infiltrazioni e doppi livelli? Che il protocollo sia ancora utilizzato?

Una piccola illuminazione quest’ultima in un giorno che accende l’anno che verrà: in cui non mancheranno nuovi corvi, nuovi depistaggi e clamorosi “scoop” o notizie sottratte agli inquirenti senza però mai avvicinarsi alla verità. C’è rimasto solo il ragionamento (e su un blog personale, un giornale per carità…!).

“Strategia della delegittimazione”: chi tocca le trattative brucia

articolo pubblicato su Antimafia2000 il 29/10/13

bonaventura

di Simona Zecchi

Antefatto. Non è storia di oggi perché uscì già il 17 maggio del 2012 da un’intervista di Corradino Mineo al pm della DNA Gianfranco Donadio (foto) (allora procuratore aggiunto della PNA a Salerno). Intervista presente per la visione completa nel canale Youtubema che vale la pena trascrivere in parte, alla luce dei nuovi elementi di indagine emersi.
Così Donadio: ”Il Pm Tescaroli che ha sostenuto l’accusa contro gli imputati, nel corso della requisitoria ( sentenza d’appello del 7/7/2000 Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, ndr), si occupò di un particolare molto atipico riferito all’attentato. Ossia guanti di gomma e collanti incompatibili con la metodologia degli attentatori che minarono il cunicolo (il livello sotto il manto stradale, ndr) utilizzando attrezzi molto pesanti come  guanti da lavoro.” “Il Pm parlò all’epoca – continua Donadio – “di rafforzamento della carica. I tecnici esplosivisti si riferiscono al rafforzamento con il termine esplosivo nobile che rende più efficace l’effetto di devastazione che venne provocato da circa 500 kg di esplosivo non particolarmente nobile”. E ancora “A Capaci c’erano due bombe”.

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I Fatti. Dopo la nuova svolta investigativa della procura di Caltanissetta sulla strage di Capaci, intanto, forse non è più possibile mettere in dubbio il supporto di un’altra mano (quella dello Stato) oltre a quella mafioso-militare per l’organizzazione dell’attentatuni che suggellò l’ultima trattativa. E per la quale Paolo Borsellino vide accelerare il corso della propria morte in pochi giorni. Al vaglio del nuovo filone d’indagine come da notizia dell’8 ottobre scorso, infatti, ci sarebbe l’eventuale ruolo di Giovanni Aiello (agente di polizia in pensione dal volto deturpato) e anche quello di una tale Antonella.

E’ del 20 ottobre scorso poi la notizia dell’arrivo di certo esplosivo che sarebbe stato destinato all’ex pm Antonio Ingroia, fatto rivelato da un collaboratore di giustizia di ‘ndrangheta, Marco Marino, il quale sarebbe stato avvicinato da alcuni mafiosi di cosa nostra mentre in detenzione nel carcere Pagliarelli di Palermo tra il 2010 e il 2011. Sono poi cose note le minacce e gli avvertimenti rivolti al pm Di Matteo e agli altri sostituti che si stanno occupando della Trattativa di cui sono in corso le udienze.

Ma per capire questa storia di calcolata distruzione del pool che cerca di scoprire la verità di quelle stragi bisogna seguire un percorso narrativo a ritroso. Un’inchiesta pubblicata quest’anno dalla giornalista Stefania Limiti dal titolo “Doppio Livello” (Chiarelettere, 2013) aveva suscitato qualche polemica sia nei confronti della stessa giornalista che del settimanale che per primo ne pubblicò la recensione (“Il Venerdì” di Repubblica) e il suo autore Piero Melati, da parte proprio della procura di Caltanissetta. Nel libro viene spiegato lo schema sotto ‘falsa bandiera’, ovvero l’utilizzo di una tecnica di origine militare, accostata alle operazioni di camuffamento, come elemento sempre presente nelle dinamiche delle stragi italiane. Allo schema vengono ricondotte le stragi che partono da Portella della Ginestra e arrivano a Capaci, passando per Piazza Fontana. Il sostituto Donadio, sempre schivo nelle apparizioni televisive o restio alle interviste tout court (come se questo possa costituire elemento di gravità, ma oggi alcuni titoli di giornale suggellano la decisone in tal senso del procuratore Messineo sugli interventi mediatici dei giudici) aveva partecipato alla presentazione romana del libro. Da quel giorno gli attacchi interni alla procura antimafia, o ad essa esterni, si susseguono come ad effetto domino.

A giugno un fatto smuove la lenta fissità delle notizie estive: la fuga dalla località protetta nelle Marche del pentito di ‘ndrangheta Nino Lo Giudice, fuga accompagnata da un primo memoriale e rilanciato da un secondo ad agosto, il tutto a distanza di due mesi. Anche Lo Giudice nei suoi precedenti interrogatori, prima di ritrattare pubblicamente avrebbe parlato dello stesso uomo (Aiello), ora iscritto come indagato per strage, e di un’altra persona (Antonella, di cui si sta verificando l’identità). I due memoriali accompagnati da video amatoriali non sortiscono entrambi lo stesso effetto ma ottengono una cosa fondamentale: l’inquinamento sulla credibilità di Lo Giudice. A settembre, sul sito di cronaca e attualità, “fanpage.it”, il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura, ex reggente della cosca Vrenna-Bonaventura (lo stesso che denunciò di recente il tentativo da parte della ‘ndrangheta di attentare alla vita dell’attore Giulio Cavalli), parla già di una commistione tra politica e mafia per screditare i giudici, svelando i retroscena della strategia dei finti pentiti. Fatti di cui aveva parlato in passato agli inquirenti e ad alcuni organi dello Stato: un filo rosso che lega ‘ndrangheta, cosa nostra e pezzi dello Stato, una commistione che oggi acquista una grande rilevanza alla luce dei recentissimi eventi e  la cui forza viene confermata proprio dal racconto a ritroso di questi eventi.

Bonaventura, non è più un mistero ormai, si trova a Termoli nel Molise, località che anche questa  dovrebbe essere protetta. Località protetta, secondo il programma di “Servizio di Protezione Centrale”, dovrebbe significare identità protette e non protezione fisica costante: una cosa dovrebbe sostituire l’altra. Ma Bonaventura non ha né l’una né l’altra, nonostante il falso cognome sul citofono.  E nonostante la buona volontà, a detta del pentito, del nuovo direttore del Servizio. Termoli “dove la gestione di mandamenti occulti da parte dell’organizzazione criminale ‘ndrangheta”- come afferma Luigi Bonaventura –  è pane quotidiano ma non fatto quotidiano: la stampa ne parla poco o punto. Proprio Termoli, a pochi chilometri da dove era stata mandata la collaboratrice di giustizia Lea Garofalo dal programma di protezione, Campobasso (la cui identità fu invece scoperta dal marito che la sequestrò e uccise nel 2009 a Milano).

Bonaventura legge i memoriali lasciati da Lo Giudice confrontandoli a quelli video, rilasciati a sintesi degli scritti, come se fossero una mappa. Una mappa che lui conosce bene: ne interpreta i messaggi fuori riga, le incongruenze e le contraddizioni che destano più di un sospetto in questa plateale mossa  strategica probabilmente mirata a far saltare un percorso che l’ormai ex pentito Lo Giudice stava compiendo. Bonaventura conferma all’autrice di questo articolo quanto segue: <<Del piano in corso sul Lo Giudice avevo già riferito agli inquirenti, nome che feci tra gli altri come quello di Antonio Di Dieco il quale, secondo il falso pentito Francesco Amodio, che mi avvicinò la prima volta, era disponibile a far parte del piano>>. (Antonio Di Dieco ha ricevuto recentemente dal GIP di Roma, Cinzia Parasporo, una ordinanza di custodia cautelare in carcere). Di Dieco, infatti, era già indagato per presunte false dichiarazioni nei confronti del Lo Giudice. In questi giorni lo stesso Cisterna è sotto il fuoco del Tribunale della Libertà di Roma per gli scambi poco opportuni tra lui e il difensore di Di Dieco, Claudia Conidi.

I nomi e i fatti che Bonaventura ha già rivelato agli inquirenti in tempi non sospetti (nel 2011) sono tutti segnati da appunti da lui raccolti e da noi visti, comunque già apparsi nelle sue interviste video. Scritti pieni di memorie e riflessioni sui fatti che mano a mano gli accadevano: abbordaggi, avvicinamenti e minacce anche da parte di uomini che erano preposti alla sua protezione. <<I nomi fatti dal Lo Giudice – continua Bonaventura – sono quasi tutti gli stessi fatti a me tra magistrati e funzionari, la loro strategia è quella di farti dire nomi che appartengono alla stessa area di provenienza: Crotone>>. <<Fatto – continua Bonaventura –  che va collegato con Lo Giudice in quanto gli stessi funzionari e magistrati avevano sentito il pentito nei vari procedimenti.>> Il funzionario Renato Cortese, il magistrato Pignatone, nomi fatti dal Lo Giudice che si collegano a queste dichiarazioni. Questo punto è molto importante perché sottolinea la fine peculiarità della strategia di delegittimazione portata avanti nei confronti  dei pentiti e di alcuni magistrati. Appurare se e quali di essi è giustamente tirato in ballo o meno dal Lo Giudice è compito delle procure che stanno seguendo il caso, come ha dichiarato a chi scrive in una precedente intervista  il procuratore capo di Reggio Calabria De Raho. Delegittimazione o tentativi di corruzione dunque per tornare alla vita di prima magari da finti pentiti protetti dallo Stato, come ha denunciato lo stesso Bonaventura.  Patto che il Bonaventura non ha accettato andando incontro a un rischio quotidiano per lui e la sua famiglia sapendo anche lui che chi tocca certi livelli, nel suo caso testimoniando, brucia.  In fondo per questo ha deciso da un po’ di tempo ormai di non celare più la località in cui si trova: è inutile e forse paradossalmente più sicuro.
Tra gli elementi che screditerebbero le testimonianze rese nei memoriali dal Lo Giudice, secondo la lettura e l’esperienza di Bonaventura, vi è la dinamica delle pressioni che avrebbe ricevuto l’ex pentito Lo Giudice in fuga da questo o quel magistrato. Pressioni che, leggendo i memoriali, Lo Giudice denuncia in modo più crudo proprio verso il magistrato Gianfranco Donadio. Donadio, era stato a suo tempo incaricato da Piero Grasso di svolgere indagini sulle stragi del 92-93 ed era arrivato a uno schema particolare di compartecipazione nelle stesse, un doppio livello militare e mafioso. A Donadio poi è stata avocata l’indagine sulle stragi (altro successo ottenuto da questo sottile piano di delegittimazione). Proprio qualche giorno fa davanti alla prima commissione del CSM, il pm ha difeso il proprio operato affermando di non avere alcuna responsabilità nella fuga di notizie  sulle indagini (nella quale sono coinvolti due quotidiani: “Il Sole24” e L’Ora di Calabria) né di aver mai oltrepassato i termini della delega alle indagini ricevuta da Grasso. Tra i magistrati che avrebbe dovuto delegittimare Bonaventura non vi era Donadio, come risponde su domanda il pentito, ma la dinamica sottesa a questi eventi  è tanto più importante a confermarlo: al pentito non costerebbe nulla dire anche ciò che non sa e invece riferisce solo ciò che sa e pensa:

<<Quello che riferisce Lo Giudice, la dinamica che si evince dai suoi racconti è totalmente non credibile>> – continua Bonaventura – << I luoghi deputati ad incontrare i magistrati durante i colloqui e le deposizioni sono assolutamente controllati, monitorati e registrati: ci sono poliziotti, i legali che assistono, ecc. Comunque tutte persone terze che potrebbero avere un ruolo di testimonianza nel caso si verificassero episodi di minaccia simili. A me non è mai successo, e il tutto è riscontrabile dai verbali: c’è una precisa volontà in tutta questa storia di attaccare la magistratura, l’unica invece che oggi può fungere da punto di riferimento e che per me rappresenta la vera essenza dello Stato>>.

Fatto invece fondamentale nella disamina del tutto, secondo sempre il Bonaventura, sarebbe il resoconto dell’abbordaggio cui sarebbe incorso il Lo Giudice e di cui fa riferimento nel memoriale: <<Qui Lo Giudice sembra che inconsapevolmente o meno si contraddica; essere avvicinato da persone esterne in un luogo cosiddetto protetto è proprio quanto è accaduto a me>>. E’ qui che le contraddizioni sono importanti. Certo resta da capire ancora quale parte detta da Lo Giudice è vera e quale no. Ma nel piano di delegittimazione la confusione e la messe di accuse uguali e contrarie sono parte della strategia. D’altronde lo stesso avvocato Giuseppe Nardo che nei memoriali Lo Giudice sembrerebbe nominare come suo, destituendo l’altro, in una intervista di fine agosto all’autrice di questo articolo aveva dichiarato con molta evidenza come lo stesso fatto e quanto dichiarato denunciassero “una grave situazione di frattura all’interno delle correnti di magistratura della Procura di Reggio, fatto che certo non rassicura i cittadini”. Insomma derubricare tutto a una lotta interna alle procure sembra il mantra che serve a confutare tutto.

Bonaventura dichiara anche un fatto mai prima reso noto ad alcun organo di stampa, che seppure è solo una sua percezione quanto meno lancia un allarme sul servizio effettivo di protezione che dovrebbe ricevere Bonaventura:<<Ho avuto anche il sospetto che tra i personaggi che si accompagnavano con i De Stefano-Tegano agli abbordaggi in cui mi hanno coinvolto ci fosse anche qualcuno dei servizi>>.

Per il superpentito Bonaventura, che ha collaborato ad oggi con ben 9 procure nazionali e una internazionale, attestandone sin qui l’attendibilità, la mossa di Lo Giudice è <<una mossa preparata a dovere e con grande anticipo>>, che demolirebbe la reazione di sdegno e mal sopportazione raccontata dal Nano nei memoriali (così viene anche chiamato Lo Giudice). <<Se così fosse>> – continua Bonaventura – <<allora lo racconti agli inquirenti, lo racconti subito non ti prepari a dicembre, o forse prima, per poi uscire a giugno>>.

C’è inoltre un importante distinguo, quasi la notizia di questo articolo, che fa Bonaventura riferendosi a una sua passata intervista resa a Rainews24 nel 2012 sempre riguardo al piano di delegittimazione. Nell’intervista fece alcuni nomi di politici che sarebbero stati obiettivo di delegittimazione (Berlusconi, Alfano, Maroni). Il superpentito ci tiene oggi a precisare senza riferirsi a nessun politico in particolare che la delegittimazione politica come piano strategico è soprattutto elemento di ricatto alla corrente interna di quegli stessi partiti che in larga parte appoggiano o hanno appoggiato le ‘ndrine. Era ciò che voleva dire in quei pochi minuti ritagliati nell’intervista. E’ Bonaventura stesso ad affermare che quando si trovava in carcere riceveva indicazioni di voto specifiche. Dunque il nome di questo o di quel politico, viene fatto con la consapevolezza che serva a una o più correnti avverse nello stesso partito. Insomma utilizzare alcuni pentiti sensibili a certi richiami, e magari anche stanchi di lottare in un sistema che spesso protezione non dà, per dare avvertimenti al proprio avversario di corrente.

Lasciare Termoli e il peso degli occhi addosso non è stato più facile che entrarvi, perché nel frattempo si è potuta constatare la condizione in cui vivono  Bonaventura e i suoi familiari, che lo hanno seguito in questa lotta contro un mondo ormai rinnegato. Luigi ripete spesso le parole “dissociato” e “collaboratore” nel suo discorso, perché insieme i due termini convogliano in quello unico di pentito troppo spesso abusato. Chiude il collaboratore con un messaggio che è quasi un appello:<<L’arma dei collaboratori di giustizia potrebbe essere più efficace se anche la politica facesse il proprio dovere: se desse gli strumenti giusti al programma di protezione e non ostacolasse l’opera dei veri collaboratori che vogliono dare un contributo alla giustizia riparando i fatti criminosi commessi nel proprio passato>>. Bonaventura è in attesa di vedere accettata la sua richiesta per la protezione in luogo diverso dal territorio italiano così come quella ripetuta più volte, ma senza esito, di una scorta.

Le verità sulla morte di Pasolini sul nuovo numero de “I quaderni de L’Ora”

Le verità sulla morte di Pasolini sul nuovo numero de “I quaderni de L’Ora”

di Giorgia Cardinaletti pubblicato su Il Messaggero on line il 16/02/13

Tra gli autori degli undici capitoli del libro, Walter Veltroni, Gianni Borgna (ex assessore alla Cultura del comune di Roma), Carla Benedetti, docente di Letteratura italiana contemporanea dell’Università di Pisa

ROMA – La verità sulla morte di Pasolini. È questo l’obiettivo del nuovo numero de “I Quaderni de L’Ora” (editrice la Palma), rivista di approfondimento che riunisce tanti dei giornalisti dello storico quotidiano di Palermo “L’Ora”, dedicato interamente alla morte dell’intellettuale.

«La nostra è un’avventura editoriale – spiega Giuseppe Lo Bianco, direttore della rivista – in cui abbiamo voluto fare il punto delle indagini, raccogliere le esperienze di autori e colleghi che si sono occupati del caso con l’obiettivo di offrire un contributo di idee e di connessioni logiche volte alla scoperta della verità».

Cosa c’entra l’omicidio Pasolini con la morte di Mattei e del giornalista de “L’Ora” Mauro De Mauro? Chi era Graziano Verzotto e perché la sua figura è centrale nell’inchiesta? Cosa è successo davvero quella notte fra il 1 e il 2 novembre del 1975 quando il corpo di Pier Paolo Pasolini fu trovato in una pozza di polvere e sangue all’Idroscalo di Ostia? Walter Veltroni, Gianni Borgna, ex assessore alla Cultura del comune di Roma, Carla Benedetti, docente di Letteratura italiana contemporanea dell’Università di Pisa, lo storico Giuseppe Casarrubea, i giornalisti Walter Rizzo, Rita Di Giovacchino, Giuseppe Pipitone Mario Dondero, Martina Di Matteo, Simona Zecchi. E ancora Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, autori di “Profondo Nero” (Chiarelettere 2009) nel quale si delinea un filo unico tra la scomparsa di De Mauro, Mattei e Pasolini.

Questi gli autori degli undici capitoli del quaderno monografico “Pasolini profondo nero”. Quella di Zecchi e Di Matteo è un’inchiesta inedita: «Abbiamo scoperto – spiega Zecchi – che esiste una parte di incartamenti mai fatti rinvenire prima nascosti in stanze segrete i quali ricondurrebbero alla nostra pista: ossia l’esistenza di un’altra auto sul luogo del delitto quella notte e quindi la conferma che a uccidere Pasolini non fu un minorenne ma un gruppo folto di persone organizzate».

A commentare l’ottavo numero della rivista, durante la presentazione alla libreria Notebook dell’Auditorium Parco della Musica, anche Andrea Purgatori, giornalista e sceneggiatore, autore del soggetto de “Il muro di gomma”, film di Marco Risi sulla strage di Ustica. «Dopo l’omicidio di Pasolini sono andato a parlare con gli amici di Pelosi – racconta – e ho costruito un documentario-inchiesta sul materiale trovato. Ricostruire la verità significa fare l’operazione contraria rispetto a chi cerca di slegare gli elementi limitando, così facendo, il peso delle responsabilità».

Presente in sala anche Stefano Maccioni, avvocato di Guido Mazzon, cugino di Pasolini. È stato lui insieme alla criminologa Simona Ruffini (entrambi autori, insieme a Walter Rizzo, di “Nessuna pietà per Pasolini”, Editori Riuniti) a contribuire alla riapertura delle indagini nel 2009: «Ci siamo mossi cercando di applicare le moderne tecniche di investigazione. Nel 2010 sono emersi degli elementi importanti, mi auguro che il lavoro svolto dalla Procura porti a modificare le motivazioni della sentenza che condannò Pelosi». Tra il pubblico anche Silvio Parrello, un ex ragazzo della borgata di Donna Olimpia che conobbe Pasolini, la cui testimonianza ha portato a far emergere due carrozzieri, uno dei quali avrebbe riparato un’auto uguale a quella di Pasolini che riportava tracce di sangue.

 

 

Morire raccontando: dalla Siria al Messico passando per l’Italia

di Simona Zecchi pubblicato su Periodico Mag di settembre 2012 e ripreso su Periodico Italiano Daily 

yamamoto mika

«I corrispondenti costituiscono una categoria di giornalisti molto particolare. Vivono in condizioni estremamente precarie, non solo perché rischiano di venir feriti o uccisi. Chi va in certi posti non può essere motivato solo dal dovere professionale. Spesso non si trova acqua, i trasporti sono problematici, bisogna sopportare freddo, umiliazioni, percosse, arresti. Tra i miei colleghi non ho mai incontrato avventurieri ma solo persone che cercavano semplicemente di agire per il meglio e di fare il loro dovere». (R. Kapuscinski, ‘Lapidarium’).

In questa mappa geografica e umana delle sorti di chi racconta i paesi in guerra o sotto dittatura, il tragico primo posto è andato ad agosto alla cronista giapponese Mika Yamamoto, video reporter della “Japan Press” agenzia di stampa nipponica. Già vincitrice di premi conquistati sul campo, Mika, in tutti i sensi. Uno su tutti il “Vaughn-Ueda Prize”, equivalente del Pulitzer americano.

L’inviata, secondo il ministero degli esteri giapponese, è morta a seguito di uno scontro armato ad Aleppo, nord della Siria, tra ribelli e forze del governo di Bashar al Assad.

Ma il fiume d’inchiostro, telecamere e sangue che viene dalla Siria non si ferma qui: ha iniziato a scorrere, infatti, già lo scorso febbraio con la morte dell’americana Marie Colvin del “Sunday Times” e dei francesi  di “IP3 Press” e Gilles Jacquier di “France 2”. I 3 giornalisti sono stati uccisi da una bomba mentre si trovavano in un ufficio stampa dell’opposizione siriana nel quartiere sunnita di Baba Amr, uno dei più colpiti dalle forze governative. La Colvin, giornalista di guerra di lungo corso, durante la guerra civile in Sri Lanka del 2001, aveva perso l’uso di un occhio.

Marie Colvin (nella foto)

marie colvin

Il 17 febbraio 2011 si era già verificato un precedente non di morte ma di repressione: la giovane blogger siriana Tal al-Mallouhi viene condannata a cinque anni di carcere dall’Alta Corte per la sicurezza dello Stato, con l’accusa di aver lavorato per conto della Cia. Poi a marzo c’è stato il massacro di Holms e tutto è precipitato: il quartiere di Khalidiya in particolare viene preso di mira e famiglie intere di civili vengono spazzate via: 260 i morti e migliaia i feriti tra i civili. Una guerra che dura da 16 mesi e a causa della quale si è impennato il totale dei giornalisti uccisi nel mondo tra corrispondenti e locali. Il PEC – Press Emblem Campaign – pressemblem.ch (il comitato che assegna un premio a persone od organizzazioni che si distinguono ogni anno per la protezione dei reporter) ha stimato in 55 il numero dei morti della categoria nei primi pochi mesi di questo 2012. In Siria, in tutto, 27 giornalisti e 29 blogger. (cifre al momento della stesura dell’articolo)

Il sito “Threatened Voices.org” – Voci Minacciate.org ha esposto in infografica, con dati statistici, che incrociati con le posizioni di Google danno una mappatura su scala globale, la situazione di tutti quei blogger, giornalisti e tutti coloro che usano l’informazione per raccontare i fatti, minacciati arrestati o uccisi: il quadro è impressionante. (http://threatened.globalvoicesonline.org/)

Se la Siria oggi è il teatro dei massacri sotto gli occhi quasi indifferenti del resto del mondo (Homs – Aleppo – Damasco) anche in altre località del globo non si scherza. Il 20 agosto scorso, l’Ansa riporta dell’uccisione di due fotografi verosimilmente da parte dei narcos in Messico: si tratta di José Antonio Aguilar Mota, 26 anni, e Arturo Barajas Lopez, 46 anni: Lopez era un fotogiornalista di cronaca nera, mentre Mota lavorava nel settore dei viaggi. I due fotografi prima torturati e poi uccisi sono stati ritrovati dalle autorità locali nello stato del Michoacán. Proprio qui sono state scoperte in questi giorni delle fosse clandestine in cui le vittime dei narcos vengono prima torturate, poi bruciate in un forno a legna e infine gettate. Arturo e José non erano, a quanto riportano le cronache locali, quelli che si potrebbero definire due fotocronisti d’assalto, ma le agenzie di stampa si avvalevano dei loro servizi per i racconti fotografici di interni e privati, evidentemente erano finiti in un quadro più grande di loro. Certo nel Michoacán, e in altre parti del Messico, la guerra tra gruppi criminali che lottano per il primato sul traffico degli stupefacenti miete vittime ormai da anni, mentre le istituzioni sembra facciano da semplici spettatrici.

romeo langlois

L’ultima buona notizia invece è quella che riguarda la liberazione del giornalista francese Romeo Langlois rapito in Colombia dalle Farc (“Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia”) il 28 aprile e liberato lo scorso 30 maggio. Il reporter era stato sequestrato durante una missione antidroga dell’esercito che stava seguendo. Negli scontri hanno perso la vita tre soldati e un ufficiale di polizia, mentre il giornalista era rimasto ferito al braccio sinistro. Langlois ha dichiarato di essere stato trattato bene e mai legato. Subito dopo il rilascio, il cronista ha criticato le FARC per aver creato intorno al suo rapimento una sorta di “circo mediatico” e li ha accusati di essere coinvolti in un “gioco politico”.

Leggere la classifica del PEC è come leggere necrologi. Dopo la Siria, al secondo posto c’è ormai la Somalia (13, l’ultimo aggiornamento purtroppo è di questo settembre 2012 con i 4 giornalisti uccisi a Mogadisho), a seguire il Brasile (5 reporter uccisi), e sulla stessa fila la Bolivia, la Nigeria e l’India: tutti con 2 reporter uccisi ciascuno. Mentre in Turchia a settembre si è proceduto all’arresto di una dozzina di reporter accusati di “terrorismo”. Un bollettino di guerra e terrore che spezza il racconto degli inviati e che la dice lunga sul tipo di protezione che giornali e autorità possono o vogliono dare a chi per professione e per curiosità, a volte declinata in missione, sceglie questo mestiere lontano dalle scrivanie di redazioni imbrigliate.

Proprio la ong Artículo 19 (http://www.article19.org/) ha realizzato un documentario dal titolo emblematico “Silencio Forzado” dove, oltre a fare il punto della situazione sul 2011 appena trascorso con 172 reporter ammazzati, nelle testimonianze dei giornalisti intervistati, soprattutto del sud e centro America, viene fuori un filo comune su tutti: il governo che con coscienza o meno è complice della criminalità organizzata in un’azione unica di repressione della libertà di stampa.

Scrive Domenico Quirico su “La Stampa” in un servizio significativo di agosto da Aleppo:« Quando le granate ti svegliano pensi sia stato un tuono. Se non sono eccessivamente vicine non ti svegli nemmeno. Ci si abitua a questa vita scandita dalle cannonate, al vibrare intenso dell’aria e se queste energiche onde sonore vi mancano, tendete l’orecchio verso l’orizzonte silenzioso.»

L’Italia non figura nella classifica del PEC poiché per fortuna non vi sono guerre o regimi a cui sottostare. Ciononostante, la scia dei cronisti o dei giornalisti d’inchiesta uccisi, rapiti, minacciati dalle organizzazioni criminali e avversati dai politici collusi è altrettanto lunga e inquietante.

Un libro del 2008 “Gli insabbiati” (Castevecchi editore) ne raccoglieva le storie più significative anche se non le uniche: 8 vite insabbiate in terra di mafia e nell’indifferenza di istituzioni e opinione pubblica, così come le indagini che li riguardano. Su tutte la storia di Mauro de Mauro rapito nel settembre del 1970 la cui soluzione forse a distanza di 42 anni, e dopo la gimcana dei depistaggi, star per giungere al capolinea.

I giudici di Palermo hanno depositato a luglio le motivazioni della sentenza che il 20 giugno del 2011 ha assolto l’allora imputato Salvatore Riina. Se vista con la lente dell’approfondimento motivazioni e sentenza non paiono affatto contrastare fra loro. Le motivazioni privilegiate dalla Corte d’Assise sono quelle che collegano la morte del giornalista (il cui corpo non è mai stato trovato) alle scoperte da lui fatte sulla morte dell’ex presidente dell’Eni, Enrico Mattei, avvenuta nel 1962. L’assoluzione non contrasterebbe con tali motivazioni perché di fatto rivela una matrice che va al di là di quella mafiosa, per questo forse si potrà arrivare a una soluzione.

Se prendiamo invece storie più recenti, proprio un reportage del sito Fanpage dal titolo “Giornalisti minacciati dalla camorra”, e pubblicato il 23 settembre, riporta la storia di 3 giornalisti campani di cronaca: nessuno famoso nessuno di loro ha mai visto la ribalta però Marilena Natale, Nino Pannella e Valeria Di Giorgio. Cronaca nera e giudiziaria, in TV o per la carta giovani o meno giovani le loro vite sono in bilico per scelta forse, ma senza il riconoscimento che il loro vero servizio pubblico richiede.

Ad Agosto è ricorso l’anniversario della morte di un freelance italiano Enzo Baldoni (collaboratore di “Diario”, Venerdì di “Repubblica” e Lo Specchio de ”La Stampa”) rapito a Najaf (Iraq) e i cui resti sono stati rinvenuti dopo ben sei anni, quando i suoi rapitori decisero che la sua vita aveva una scadenza da rispettare.

Chiedo al giornalista italiano Pino Scaccia che conosceva Baldoni e di cui parla proprio sul suo blog “La Torre di Babele” cosa significa essere un inviato di guerra e quali fra i due fattori (quello professionale e quello se vogliamo passionale) prevale facendo questo mestiere.

«L’inviato è il tramite tra un evento e la gente a casa, insomma va lì per tutti. Non necessariamente l’evento dev’essere una guerra ed è un dramma per l’umanità che invece sempre più spesso lo sia. Un maestro come Ryszard Kapuscinski è diventato famoso semplicemente raccontando l’Africa, anche se poi ha seguito molti conflitti. Più modestamente io spero di essere ricordato più per il viaggio a Chernobyl o per la scoperta dei resti di Che Guevara, piuttosto che per l’Iraq o l’Afghanistan. Certamente il mestiere del reporter è visto in maniera avventurosa perché gira il mondo e s’infila dove gli altri non vanno… Altro che avventura: è una vita molto faticosa e disagiata. Ma è semplicemente un professionista e va a fare il suo mestiere che è quello appunto di raccontare. Certamente per correre certi rischi bisogna soprattutto essere curiosi, avere voglia di vedere per sé prima che per gli altri. Il compito spesso è difficile, ma personalmente mi sono sempre considerato un privilegiato perché spesso sono stato un testimone diretto della storia. Un grande privilegio»

Crimine e linguaggio media: US e Italia a confronto

pubblicato sul mensile Periodico Italiano mag del 28/10/12

di Simona Zecchi

auroramassacre

Secondo uno studio condotto in Svizzera nel 2010 dal terzetto giornalistico-scientifico: il direttore dell’ ”European Journalism Observatory”, osservatorio europeo del giornalismo, Stephan Russ-Mohl, dal ricercatore svizzero Colin Porlezza e dal professore di giornalismo statunitense Scott Maier e riportato interamente dal sito dell’Università Svizzera Italiana (http://www.usi.ch/print/progetto?id=292), i quotidiani del Bel Paese sarebbero più affidabili nei contenuti di quelli elvetici.

 Ti imbatti in queste statistiche e analisi, nonché altisonanti e piacevoli affermazioni, quando poi a luglio accadono eventi come la strage di Denver (Colorado). Un solo killer, armato e coperto da una maschera antigas, ha aperto il fuoco in un cinema ad Aurora, anonima periferia di Denver, uccidendo 12 persone (invece delle prime 14 dichiarate) e ferendone circa 50 (e non 70 come riportato in primis). Queste le primissime note rilasciate subito dopo il fatto, avvenuto il 20 luglio scorso, dal capo della polizia Daniel J. Oates, un nome storico nel parterre dell’anticrimine americano. Oates prima reporter nell’ “Atlantic City Press”, poi a capo del “NYC Police Department”: una perfetta sintesi per questo articolo e ancor più una storia tipicamente americana.

Una strage che sa di mala periferia (americana in questo caso) e perverse emulazioni: pare che il presunto killer, poi individuato come un giovane “colorato” di 24 anni (per via dei capelli rosso fumetto) stesse mimando le gesta di Bane, il super cattivo dell’ultimo capitolo della saga di “Batman”, conosciuto in Italia anche col nome di “Flagello”, personaggio creato dalla matita di “DC Comics” la nota serie di fumetti.

E la strage è avvenuta proprio durante la prima de “The Dark Night Rises” diretto dal grande regista introspettivo Christopher Nolan, cui poi comunque sono seguite le altre tappe del tour promozionale non senza falsi allarmi di attentati ed emulatori di sconclusionate gesta a successione.

La polizia ha subito fermato il sospetto killer, James Holmes, e ha escluso, dalle testimonianze raccolte, che a sparare ci fosse un secondo killer, anche se sin dall’inizio le dinamiche e le armi con cui Holmes è stato arrestato presso il parcheggio del cinema (nonché le sue prime dichiarazioni sull’ingente quantitativo di esplosivo presente nella sua abitazione) avevano fatto pensare agli stessi inquirenti che i complici potessero essere più di uno.

Gli spettatori non si sono subito accorti di quanto stava succedendo, sopraffatti dagli effetti speciali e dal volume alto che accompagnano spesso queste proiezioni. «Abbiamo sentito degli spari e un’esplosione, ma credevamo fosse il film, quando abbiamo visto che molte persone si alzavano e scappavano ci siamo alzati anche noi», aveva detto un testimone alla tv Usa “9News”.

Insomma: quando mito e realtà, finzione cinematografica e cruenta attualità si mescolano e chi si trova protagonista suo malgrado ne rimane bloccato; non come in uno spezzone o uno scatto immortalato ma nello “shooting” di un episodio vero che è per sempre.

Sul luogo della strage sono intervenuti anche gli agenti dell’Fbi, per valutare se l’episodio poteva essere codificato come un atto di terrorismo ma l’agenzia governativa, che ha poi la mossa finale decisiva, ha dichiarato che il terrorismo non c’entrava nulla. Da quel momento in poi l’occhio rapace dei media è rimasto tutto focalizzato sul vero protagonista: James Holmes.

Il quotidiano “La Repubblica”, secondo al “Corsera” in diffusione cartacea ma primo sull’on line, (fatto che sa perfettamente e ne approfitta), dedica alla strage sul sito uno speciale dietro l’altro; titoli, sottotitoli e cappelli erano tutti per lui, il killer: “Inferno in un multisala del sobborgo di Aurora. James Holmes, 24 anni, indossava una maschera antigas come il “cattivo” del film e ha usato armi comprate legalmente: le munizioni le aveva acquistate sul web. Tra le vittime anche bambini, undici dei feriti sono in condizioni critiche. La casa del giovane è imbottita di esplosivo, area evacuata e artificieri al lavoro. Obama “scioccato” ordina bandiere a mezz’asta fino al 25 luglio”

L’ “Huffington Post” americano il 20 luglio titolò il fatto così: ”James Holmes, Aurora Shooting Suspect, Purchased 6,000 Rounds Of Ammunition Online (ossia: James Holmes, sospettato della sparatoria di Aurora ha acquistato 6,000 serie di munizioni on-line)

E ancora il Corriere della Sera, il 23 luglio: ”Denver: trovato il computer del killer Lunedì prima udienza in tribunale”. Una contraddizione in termini nello stesso periodo visto che la prima udienza doveva ancora iniziare e già il corriere nazionale lo definiva un killer.

Lo stesso giorno e lo stesso fatto sul “The Guardian”: “Colorado shooting suspect James Holmes makes first appearance before judge” (ovvero: Il sospettato per la sparatoria in Colorado fa oggi la sua prima apparizione davanti al giudice) che ha proseguito come coerenza vuole anche nel testo quando vicino al nome o alla descrizione sempre apparica “l’uomo che si crede abbia ucciso 12 persone…”.

Insomma alleged, suspect, believed to be e poi tutti i dettagli del caso. L’inglese non è una lingua complessa ma è piena di sinonimi e sfumature per non doppiare “che pare brutto” esteticamente e non ingannare il lettore così come la verità dei fatti. Non che l’italiano ne sia sprovvisto, ma la caparbietà sul sensazionalismo e quindi la storia che il cane che morde l’uomo in sé non basti a vendere (“Quando un cane morde un uomo non fa notizia, perché capita spesso. Ma se un uomo morde un cane, quella è notizia” è una delle citazioni più note sul giornalismo apparsa la prima volta sul “New York Sun” a fine ‘800, la cui attribuzione però resta tutt’ora incerta), sembra avere sempre più la meglio su illustri e meno illustri cronisti e redattori dei fogli nazionali e locali. Si, forse ci caschiamo tutti e non raramente perché la crisi impone che il cane sia quello di una star almeno, e la star tassativamente di primo livello ma la differenza con i quotidiani e i giornalisti degli altri paesi si fa sentire e pesa.

E ancora, per quanto riguarda Holmes, mentre il 30 luglio nel corso del primo dibattimento è stato formalmente accusato di primo grado con ben 24 capi d’accusa, e mentre si è discusso sin dall’inizio se dargli o no la pena di morte in uno Stato dove non si applica da anni, il termine che lo ha associato nei media locali e nazionali è quello preciso di suspect.

Intanto mentre Holmes si toglie il “rosso Bane” dai capelli, viene discussa la nuova udienza (20 settembre) e il grande nodo sull’uso degli appunti che l’imputato spedì allo psichiatra prima del gesto assurdo viene sciolto con la decisione di non poterlo utilizzare come prova perché elemento di segretezza fra medico e paziente.

 Per tornare unicamente ai giornali nostrani e capire come il linguaggio dei media sul crimine in Italia sia sempre meno specifico ed esatto basta rivolgerci all’attentato di Brindisi. Attentato avvenuto a Brindisi il 19 maggio di un sabato scolastico col sapore già delle vacanze.

 E’ presto e i bus che fanno la spola dai paesi limitrofi per portare i ragazzi dei vari istituti superiori nelle loro classi si susseguono. Uno solo però, quello che parte da Mesagne (Brindisi) e porta con sé alcuni ragazzi della scuola superiore “Morvillo-Falcone” si ferma più di tutti. Sono le 7.50 e un’esplosione spezza la vita di una ragazza, Melissa Bassi, e ne ferisce altre 6 (anche qui le imprecisioni fioccavano già: si riportò di 2 morti iniziali, la seconda ragazza dopo qualche giorno, e 5 ferite gravemente). I riflettori rimangono accesi sulla città e le dinamiche dei fatti, mano a mano che le indagini si susseguono, con una frenesia al limite del parossismo. Tanto è vero che persino uno stimato e invidiabile giornalista come Sandro Rutolo collaboratore di Santoro in “Annozero” si lancia su Twitter in vere e proprie descrizioni e indicazioni dettagliate di un presunto sospetto, in realtà solo eventualmente informato sui fatti, in quel momento interrogato dalla procura. Quando però arriva la smentita sul suo coinvolgimento, la frittata era già stata fatta e la rabbia dei brindisini, così come il flash dell’infamia, implacabili avevano già creato il mostro. Il giornalista è stato convocato dall’Ordine professionale e un procedimento disciplinare è stato aperto nei suoi confronti, la cui entità è tuttora sconosciuta.

 Poi le indagini hanno fatto il loro corso e al momento in cui scriviamo il sospettato è tutt’ora il reo confesso Giovanni Vantaggiato, commerciante agiato di Copertino (Lecce), subito soprannominato il killer, il bomber (tanto per associarlo alle azioni di un folle isolato con intenti maniaci e omicida). Fino a pochi momenti prima il web e le edicole erano già un profluvio di analisi stragiste nazionali e internazionali, senza attendere lo svolgersi dei fatti e avere così più elementi per fare collegamenti maggiormente concreti. Intanto, mano a mano che l’attenzione sul fatto si diradava, nelle descrizioni degli eventi che caratterizzano tuttora le indagini e le poche rivelazioni, spesso emerge la volontà di farlo apparire come un folle a cui è scappata la mano, quasi a voler credere forzatamente alla sua tesi di tentato omicidio per reazione alla mala giustizia (secondo Vantaggiato la sentenza che ha riconosciuto nel 2008 la sua condizione di vittima per una truffa di oltre 350 mila euro non avrebbe reso la giustizia meritata e questo avrebbe scatenato la sua reazione ai danni di persone e cose davanti all’istituto scolastico).

Intanto, mentre ne parliamo e altri elementi oscuri emergono fuorché il movente, rimane l’accusa di strage con finalità terroristica e il sospetto che Vantaggiato abbia agito con altri complici, come indica la richiesta d’arresto della Procura che coordina le indagini. Inoltre, nel dibattimento verrà anche discusso il suo coinvolgimento in un altro attentato di cui ha anche ammesso la responsabilità, avvenuto nel 2008, nei confronti di Cosimo Parato suo presunto socio in affari. Ma questa è un’altra storia e gli elementi sono ancora poco consistenti per trarne concretezza. L’ultimo interrogatorio svoltosi in questi giorni dal titolare delle indagini, il pm Milto De Nozza, vede arroccata ancora la difesa del sospettato, rappresentata dal legale Franco Orlando, sulla motivazione di “atto dimostrativo”.

Altro esempio attuale e interno alla penisola su come i fatti possono essere anche involontariamente o meno manipolati, se al centro di tutto non viene posto il lettore e meglio ancora il cittadino, è stato l’arresto in custodia cautelare del senatore, ex Margherita, Luigi Lusi. L’ex tesoriere della Margherita (attualmente tradotto ai domiciliari presso un convento) è accusato, insieme ad altre persone (tra cui la moglie), di appropriazione indebita di oltre 25 milioni di fondi del fu partito. Nei giorni successivi l’arresto, la Cassazione aveva rinviato a un’ulteriore valutazione la condizione di custodia cautelare cui era sottoposto il parlamentare.

Fatto questo che avrebbe determinato la probabile scarcerazione fino al processo perché sarebbero venuti meno il pericolo di fuga e l’inquinamento delle prove.

Il titolo che maggiormente ha furoreggiato in quei giorni, non solo nel quotidiano vicino spesso alle posizioni del PD come “Repubblica”, ma in tutti o quasi i quotidiani anche di opposta appartenenza, era appunto la non validità dell’arresto, quando invece Lusi doveva ancora rimanere in carcere perché mancava la completezza della valutazione nel merito. Soprattutto però in un momento così delicato per la giustizia, e le verità di Stato che mano a mano emergono su fatti che hanno lacerato l’Italia da oltre vent’anni (la trattativa Stato- mafia, il processo a Piazza Fontana, la strage di Brescia ecc., ecc.) i titoli prendono il posto del contesto e del fatto in sé e la gravità di quanto è stato commesso, l’unica a essere valutata prossimamente. La sottrazione indebita di soldi appartenenti agli elettori, infatti, è stata messa in secondo piano, quasi a volerla cancellare, quasi a far finta che l’errore non stia nel reato in sé (che c’è stato: è un fatto), ma nell’averlo giudicato. Un risultato non casuale, proprio se guardiamo alle reazioni scatenate da inchieste scottanti che coinvolgono uomini delle istituzioni e funzionari che allo Stato rispondono.

La Margherita, intanto, ha nei giorni scorsi consegnato al Ministero dell’Economia e delle Finanze, Vittorio Grilli, 5 milioni di “avanzi patrimoniali” del partito.

E’ solo un esempio tra i fatti di cronaca più recenti ma serve a indicare quanto il focus sui fatti resti spesso in difetto.

Su tutto, ad esempio di quanto fede ai fatti e passione del racconto possano coesistere e attirare l’attenzione dei lettori, rimane l’incipit di un articolo che la giornalista messicana Alma Guillermoprieto pubblicò nel 1982 sul “Washington Post”: “Diverse centinaia di civili di questo villaggio e dei dintorni, compresi donne e bambini, a dicembre sono stati prelevati dalle loro case e uccisi da truppe dell’esercito salvadoregno, durante un’offensiva contro la guerriglia di sinistra, stando alla testimonianza dei sopravvissuti che dicono di aver assistito ai presunti massacri” (dalla raccolta di articoli presenti nel libro “Cronache dal Continente che non c’è” – La Nuova Frontiera, 2011). La Guillermoprieto arrivò a Mexico City un mese dopo quel massacro rischiando, insieme al collega Raymond Bonner del “New York Times”, la vita per il suo lavoro che per fortuna gli costò invece, dall’allora amministrazione americana retta da Ronald Reagan, “solo” l’accusa di attività propagandistica.

 Il risultato dello studio scientifico-giornalistico, rimasto autorevole seppure non recentissimo con il quale abbiamo aperto questo articolo, ora, potrà avere forse un’aria meno altisonante e più uno stimolo a fare bene il proprio lavoro sempre.

Idroscalo di Ostia: la rabbia degli sfollati

Servizio ripresa e articolo pubblicato su Fanpage.it  di Simona Zecchi, Martina Di Matteo, Peppe Pace

Nel febbraio di tre anni fa, le ruspe del comune di Roma entrarono all’Idroscalo, dove da sessant’anni vivevano 500 famiglie. Nel giro di due ore e senza alcun preavviso, diverse famiglie furono allontanate dalle proprie case che vennero immediatamente demolite. Da tre anni il comune spende circa 3000 euro al mese per ognuna delle famiglie sgomberate e trasferite in un residence. Lo sgombero e la demolizione costarono alle casse comunali circa 6 milioni di euro. Al posto delle “baracche” demolite, il nulla.

Era l’alba del 23 febbraio del 2010 quando 35 famiglie, residenti nella zona dell’Idroscalo di Ostia, vennero allontanate dalle proprie case con un’ordinanza della protezione civile a causa di un pericolo di esondazione. È Paula De Jesus, urbanista a supporto tecnico della Comunità Foce Tevere, che si batte da anni per fare in modo che la riqualifica dell’Idroscalo avvenga in modo che i residenti mantengano le proprie abitazioni, a spiegarci che l’ordinanza della Protezione civile è da considerarsi illegittima: quel 23 febbraio non ci fu nessuna esondazione e, anzi, le condizioni meteorologiche quel giorno non lasciavano presagire nulla di preoccupante. In poco più di due ore, e senza nessun preavviso (nonostante le ordinanze ricevute dai cittadini quel giorno fossero datate al 17 febbraio), 35 famiglie furono costrette a raccogliere i propri effetti personali tentando, per quanto possibile, di salvare il mobilio (sistemato alla meglio in alcuni container pagati dal Comune di Roma), prima di essere trasferiti al residence “Borgo del Poggio” in via di Fioranello, nei pressi di via Ardeatina. Le case furono abbattute quel giorno stesso, in fretta, per evitare che le persone ne riprendessero possesso. Da quel giorno il Comune di Roma non è mai più intervenuto sul luogo. Una manovra, questa, costata al Comune circa 6 milioni di euro, per non parlare della somma, stimata tra i 2000 e i 3000 euro al mese a famiglia, che da ormai quasi due anni serve a coprire le spese del residence. Nel frattempo, il destino di tutti gli altri abitanti della zona sembra incerto. Infatti, secondo il progetto di riqualifica del territorio, entro il 2013 dovrebbero essere abbattute tutte le altre “baracche” per dar luogo alla costruzione di un Parco Fluviale. A rendere la situazione ancora più problematica vi è inoltre il fatto che nessuna delle famiglie residenti all’Idroscalo, tantomeno le 35 residenti al Borgo del Poggio, compare in alcuna delle liste di assegnazione per alloggi popolari.
La Comunità Foce Tevere, spiega la portavoce Franca Vannini, continua a battersi per una riqualifica del territorio che preveda la creazione di un piccolo borgo dell’Idroscalo, che permetta non solo alle persone di mantenere le proprie case ma che miri anche conservare l’identità del quartiere.

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Daniel Estulin e le oligarchie che governano il mondo

Articolo pubblicato il 28/10/12 su Periodico Italiano mag

«Questo è un Impero con la i maiuscola, ma non è come l’Impero russo o quello inglese o quello nordamericano. Questo è un Impero invisibile, che si nasconde agli occhi della maggior parte delle persone anche se la sua attività ha un impatto tremendo sulla nostra vita di tutti i giorni»

Daniel Estulin è un giornalista investigativo russo, scrittore ed ex collaboratore del Kgb. Intervistarlo è come entrare nei gangli dei secoli che hanno costruito i mattoni della storia. E’ giovane ma allo stesso tempo con un’esperienza di anni alle spalle che, nella vita intera ordinaria di ognuno, non sarebbe immaginabile ritrovare.

E’ certo un punto di vista, seppure basato sui fatti da lui riscontrati e può non essere condivisibile, ma resta un racconto storico-politico avvincente in cui forse anche noi italiani potremmo riconoscere i tratti significativi che hanno minato il nostro paese dagli anni 69-70 in poi.

Estulin, utilizzando metodi simili allo spionaggio da Guerra Fredda e rischiando più volte la vita è diventato una delle voci più rappresentative dell’informazione senza censure. Intervistato in tutto il mondo, protagonista di trasmissioni radiofoniche, Estulin tiene conferenze sulle società segrete e sull’intelligence mondiale.

P.I.: Qual è il collegamento fra il tuo libro precedente “Il Club Bilderberg” (pubblicato la prima volta nel 2005 ora con Arianna Editrice nella nuova edizione 2011) e “L’Impero Invisibile (Castelvecchi Rex Editore, 2012, pagg. 384) ?

Bhe, innanzitutto, bisogna intendersi davvero su cosa sia il Gruppo Bilderberg e sgombrare il campo da un assunto: ovvero che sia una sorta di teoria del complotto, così non è. E’ una realtà cospiratoria questo si. Molti danno valori e significati diversi da ciò che il Bilderberg Club rappresenta veramente. Intanto è stato un fattore molto importante interno alle strutture oligarchiche nel periodo della guerra fredda. Il gruppo Bilderberg ha rappresentato un vero e proprio strumento attraverso il quale interessi oligarchici finanziari privati sono riusciti ad imporre le loro politiche su ciò che conosciamo come le sovranità nazionali. Ogni volta che si riuniscono i membri del Club Bilderberg si apprestano a creare ciò che loro stessi chiamano l’Aristocazia dello Scopo in modo che le élites europee e del Nord America possano governare il pianeta nel migliore dei modi. In altre parole, si tratta della creazione di una rete globale di cartelli giganti più potenti di qualsiasi altra nazione sulla terra destinata a controllare le necessità di vita dell’intera umanità.

Con “L’Impero Invisibile” ho voluto indagare oltre questo tipo di organizzazioni private (che comprendono anche il Bilderberg) sino ad arrivare ad altri livelli di controllo sovranazionale, dimostrando come governi, organizzazioni criminali, mafie, banche e terroristi siano uniti e spesso anche si combattano l’uno contro l’altro per ottenere il profitto. Ma al di là di questo, il libro ci mostra anche come tutto ciò che abbiamo imparato a scuola e le informazioni che ci propinano in TV siano entrambi figli di una enorme spudorata bugia. .

P.I.: Immagino come sia cambiata la tua vita all’indomani della scoperta sul Club Bilderberg, e soprattutto dalla pubblicazione dei libri, in termini di sicurezza e vita quotidiana. Come riesci a conciliare gli impegni pubblici con quest’aspetto?

Certo non posso qui parlare nel dettaglio della mia sicurezza, ma ovviamente posso affermare che la mia vita è cambiata. Quando vendi 6 milioni di libri tradotti in oltre 45 lingue e tutti da (Fidel Castro passando per lo staff più alto in grado del governo venezuelano, via fino al Parlamento Europeo e alle grandi conferenze mondiali sulla geopolitica che hanno richiesto la mia presenza) per quanto io voglia rimanere anonimo, la cosa è alquanto difficile ormai…

Per quanto riguarda me stesso, la mia vita, invece, c’è una grande differenza ad esempio fra me e Roberto Saviano (a parte il fatto che sono molto più bello!): sono stato un ufficiale del contro spionaggio nel KGB, è facile farmi fuori perché non mi nascondo; allo stesso tempo proprio in virtù di quell’esperienza è altrettanto facile per me fare fuori loro. E mi riferisco a chiunque.

 P.I.: Il libro “L’Impero Invisibile” racconta ai lettori come i gruppi economici internazionali controllino e si spartiscano il potere attraverso molteplici azioni criminali, in modo da poter mantenere un potere, appunto un impero tutto per sé. Per quanto questo sia terribile e terribili i suoi effetti, non è anche vero il fatto che le persone, i cittadini spesso per paura che le loro piccole certezze e la loro piccola sicurezza economica quando ne sono in possesso si sfaldi e non vogliano capirle recepirle queste cose?

Ciò che la gente comune, i cittadini non capiscono è che il Denaro non ha un valore intrinseco in sé per quanto lo vogliano venerare. Ciò che invece queste élite desiderano è un Impero. Troppa gente pensa che per ottenere un Impero siano necessari dei soldi. Il Denaro in realtà non è così determinante per lo sviluppo del Pianeta, in termini di benessere economico. Il valore di tutto non è espresso dunque dal denaro in sé, bensì esso rappresenta uno degli effetti relativi all’aumento o alla diminuzione del potenziale fisico della densità della popolazione dell’individuo in una società. Mi spiego meglio: il valore del denaro non si cela nello scambio individuale, bensì nella unità funzionale conosciuta come la dinamica di unificazione del processo sociale di una nazione. E’ in sostanza la mente umana che inficia su questo sviluppo. E’ il valore che si dà nel bene e nel male all’essere umano e alla sua capacità creativa. Ciò che ci separa dagli animali è la nostra abilità di scoprire i principi fisici universali. Ci permette di effettuare innovazioni che di conseguenza migliorano le vite delle persone. Lo sviluppo dell’umanità, lo sviluppo del potere dell’individuo e di una nazione dipendono insomma dalle scoperte scientifiche.

Abbiamo distrutto l’economia mondiale, l’Europa, l’Africa gli Stati Uniti e stiamo facendo del nostro meglio anche con l’Asia… vedi, l’economia reale ha a che fare con i poteri creativi della mente e le abilità che si sviluppano nello scoprire i principi universali della natura che possono migliorare la qualità della vita delle persone per Km quadro in una sfida contro la natura. Quindi poiché siamo 7 milioni di persone, a meno che non sviluppiamo del progresso andremo tutti all’”inferno”: abbiamo bisogno sempre più di scoperte che migliorino le nostre vite creando una tecnologia che sostenga una popolazione base di quest’entità.

P.I.: Come può la cosiddetta “teoria” della strategia della tensione internazionale, se si può definire così, paragonarsi a ciò che per oltre 40 anni è successo in Italia con la parallela strategia della tensione? I paesi che nel libro tu affermi stanno dietro a tutto (Francia, USA, Israele e Russia) hanno un piano strategico diretto, a seconda del paese di cui intendono cambiare la situazione politica ed economica?

Devi sapere che tutto l’apparato internazionale è gestito da Londra: l’epicentro insomma. La City è il ragno al centro della ragnatela. Sono loro che stanno orchestrando tutto. Ed è necessario che si capisca che ciò che è stato fatto con l’economia non è avvenuto per caso. Gli altri paesi le altre nazioni sono solo dei giocatori di una partita più grande, un gioco controllato da Londra. Le élites credono che ci siano troppe persone nel mondo che si debbano spartire la quantità di cibo e acqua, risorse che continuano a diminuire. Quindi se puoi distruggere l’economia puoi diminuire la popolazione di base e ciò significa che moriranno miliardi di persone a causa di carestia, malattie e guerre. I russi hanno capito tutto ecco perché Putin sta spingendo affinché venga estirpata la droga in Afghanistan, ad esempio. Anche molte persone in America hanno compreso questo e stanno cercando di portare avanti progetti come NAWAPA, il progetto tecnologico più ambizioso del mondo.

Basta guardare alla storia più recente se non mi credi. Il crollo del sistema Bretton Woods, cioè il sistema che permetteva lo scambio delle valute, o lo scambio fisso della valuta distrutto da Nixon nel 1971,o il modo in cui l’FMI si sia trasformata in un’agenzia atta a servire l’Impero invece che fungere da agenzia di decolonizzazione come era inteso dalla FDR nel progetto iniziale… Dal sistema di cambio della valuta fisso si è dunque passati a quello speculativo fluttuante e alla creazione di un nuovo gruppo l’Inter-Alpha Club, l’apparato bancario oligarchico controllato da Jacob Rothschild, proprio il sistema che ha creato la bolla speculativa di cui siamo tutti vittime.

Gli inglesi hanno creato, attraverso l’operazione Inter-Alpha un apparato finanziario strutturato in modo tale che fosse abbastanza solido per poter attaccare gli Stati Uniti e faccio diversi esempi: la truffa del petrolio negli anni 1973-74; il petrolio come risorsa unica per il mercato mondiale, la nascita dell’euro dollaro, i mercati dell’euro bond, l’espansione del sistema bancario così come lo conosciamo oggi e con il potere che ha oggi (tramite l’utilizzo del denaro e del denaro “dopato”) ecc.. Tutti meccanismi che hanno avuto origine a Londra.

Una volta che si è deciso di fabbricare la “bolla”, il tutto diventa un meccanismo a schema piramidale. E’ in questo modo che avviene la sistematica rottura del profitto finanziario reale a vantaggio della speculazione economica su basi virtuali. Si è creata così “la distruzione della domanda” iniziale applicando una separazione netta dalla realtà. E’ come aver voluto giocare in un’ampia sala d’azzardo. I cosiddetti strumenti derivati (quegli strumenti finanziari o titoli il cui prezzo si basa sul valore di mercato di uno o più beni, ndr) sono in realtà elementi di azzardo sui movimenti dei vari strumenti a disposizione: come titoli di stato, valute, interessi rateali o obbligazioni. Su tutto ciò, si applicano delle speculazioni e si scommette su come ogni azione speculativa agirà sul mercato. In questa maniera si continuano ad affastellare derivati su derivati (come ad esempio quello sui mutui, che sono stati usati come benzina per fornire il meccanismo dei derivati). Ecco come l’intero sistema, derivato su derivato è imploso nel 2007 fino a oggi. Voila! I vari Rockfeller e Rotschild non vengono toccati da questa crisi perché posseggono già tutto: coloro che erano già molto abbienti sono rimasti tali infatti. L’élite vuole che il resto del mondo muoia. Il termine giusto per tutta questa operazione è uno solo GENOCIDIO.

P.I.: La storia di Victor Bout (di origine ucraina, arrestato in Thailandia nel 2008 ed estradato negli Stati Uniti nel 2010, tra le proteste russe, con l’accusa di terrorismo) che è ampiamente spiegata ne “L’Impero Invisibile” è parallela a quella di Lee Oswald accusato dell’omicidio di J.F. Kennedy oppure all’attacco alle Torri Gemelle del 9/11? Come puoi spiegare, se così è, il tutto in poche parole senza cadere nella teoria del complotto, che è poi l’accusa più facile da fare in questi casi?

La storia di Victor Bout è molto semplice. Era conosciuto, nel mondo criminale e giudiziario, come “Il Mercante della Morte”, il maggior trafficante di armi nel mondo. Appellativo e fatti falsi entrambi, a parte il film sulla sua storia interpretato da Nicolas Cage (“Lord of war” 2005, regia di Andrew Niccol ndr). Vedi, gli USA hanno due grandi nemici nel mondo: la Russia e la Cina. La Cina è sì una potenza economica, ormai, ma non militare. I cinesi, anche se la cosa può sorprenderti, non hanno la minima idea di come si costruisca una mini bomba nucleare (nel libro Estulin fa diversi esempi di come molti degli attentati accaduti negli anni della storia recente di dimensione altamente mortale siano dovuti in realtà a esplosioni nucleari, ndr). Non ne posseggono la tecnologia adatta quindi non possono competere con le altre potenze protagoniste nella corsa alle armi. La Russia, al contrario, è senz’altro una potenza militare ma non economica, dunque esistono molte modalità per debilitare una nazione che non possiede l’una o l’altra. Se sono riusciti a convincere il mondo intero che Bout è stato in grado di vendere miliardi di dollari in armi è stato solo perché una vasta nazione (leggi Russia) ha fornito quelle armi. Ecco come la Russia diviene d’improvviso quella che ha maggiormente violato l’embargo sulla vendita delle armi, minando per sempre la sua credibilità. Ma la vera ragione per cui Bout è diventato agli occhi di tutti il capro espiatorio principale ha a che fare con ciò che ha realmente colpito il pentagono il 9 settembre del 2011, quando sono crollate le due Torri del WTC. Non fu un aeroplano, ormai le persone con un minimo di sanità mentale lo capiscono. Ma questo fatto fa parte di un’altra storia molto più grande magari per un’altra intervista…

P.I.: Puoi parlarci della tua esperienza nel KGB? Ti ha aiutato nel reperimento del materiale usato per le tue ricerche e nei contatti a livello internazionale? E se quella tua esperienza ha cambiato in qualche modo il tuo punto di vista nel guardare il mondo.

Sono un patriota, sono russo. Indosso il mio patriottismo come un vessillo d’onore (come tutti dovrebbero fare verso il proprio paese). L’Italia tuttavia non esiste più come nazione: è stata sostituita dall’Unione Europea che non rappresenta affatto unità, ma è piuttosto una dittatura: la valuta non è quella vostra, la vostra bandiera è ora tutta a stelle e strisce e la vostra Costituzione è subordinata ormai a quella europea. Il vostro Primo Ministro Mario Monti, che i cittadini non hanno scelto, semplicemente sta trasformando l’Italia in un buon fedele partner europeo: la sta distruggendo come un traditore che dovrebbe essere incarcerato. E il fatto che giri libero per l’Europa millantando l’importanza del suo ruolo è il risultato di ciò che i cittadini italiani sono diventati col tempo, senza più una morale a guidarli. Mi dispiace essere uscito un po’ dal tema della tua domanda. In merito all’esperienza del KGB, il mio punto di vista non è modificato, perché io capisco i fatti della storia. In Africa, ho speso ad esempio abbastanza del mio tempo per capire le cose inimmaginabili che stanno accadendo e di cui non posso parlare qui.

Diciamo comunque in generale che lungo il corso degli anni ho avuto la possibilità di accedere a una mole di informazioni che mi sono stati molto utili per comprendere le dinamiche di alcuni eventi tra i più importanti del secolo passato. Almeno 1000 anni di storia in cui semplicemente ho scavato come un topo da biblioteca: un lavoro lento, a volte tedioso tra archivi governativi e biblioteche nazionali.

P.I.: Come possono fare I giovani le future generazioni? Che arma hanno dalla loro? Alla fine del tuo libro pronunci un auspicio per loro e per l’umanità, in genere, affermando che il destino e la verità possono salvarci facendone una buona mescolanza.

Intendevo dire che i giovani dovrebbero comprendere fino in fondo il senso della loro “immortalità”. Cosa significa essere vivi insomma. Perché siamo qui? (Che è un po’ la domanda dei secoli..) Tutto si riduce a un problema morale: la questione del destino dell’umanità. Ogni generazione che segue deve proseguire l’azione di chi l’ha preceduta. E che alla fine del percorso sulla terra di ognuno nella mente deve essere chiaro che ciò che si ha creato ha significato qualcosa, ha cioè messo le fondamenta per lo sviluppo e il progresso delle vite altrui. La diversità culturale non rappresenta soltanto un marchio come un altro del progresso dell’umanità, bensì essa è anche la migliore assicurazione contro l’estinzione delle specie. Una volta che una nazione affonda le proprie radici, le proprie origini espletandosi come nazione, il concetto stesso di nazione come tale non si estingue più. Rimane tuttavia solo in attesa che si succedano altri coraggiosi e integri esseri umani che la difendano, in modo tale che quel concetto si rafforzi sempre.

Dovremmo dunque essere l’una per l’altra una fratellanza di nazioni, di nazioni sovrane – unite da un obiettivo comune che sia teso verso lo sviluppo dell’umanità. Fino a quando riusciremo a tradurre l’essere umano verso l’Età della Ragione, la storia si rivelerà sempre in attualità; un percorso che non sia guidato dalla volontà di pochi ma dalla semplice voglia e spinta ad agire che a seconda del bene o del male conduca il fato umano in modo naturale. Al pari di una mandria di bestiame che affronta i vari passaggi del transumare o del pastorizzare così come deve essere. Un cammino che a volte, com’è nell’ordine naturale delle cose, può portare anche verso il mattatoio, la distruzione.