Dentro il Fatto

Le parole di Graviano, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta: analisi dei fatti e i loro collegamenti

Analisi & Fatti di Simona Zecchi 

Stragecapaci

Capaci (immagini wikipedia)

Operazione San Valentino. No, non si tratta di un’idea per la passata festa degli innamorati, ma del nome di una operazione di polizia contro Cosa Nostra che nell’aprile del 1981 portò all’arresto di alcuni mafiosi tra cui anche Vittorio Mangano l’ex stalliere e mafioso che lavorava per Silvio Berlusconi (numero di tessera P2 1816, gruppo 17, settore editoria come recitavano le liste ufficiali dell’associazione segreta capeggiata in Italia da Licio Gelli fuoriuscite sempre nel 1981 dalla perquisizione eseguita a Villa Wanda ad Arezzo).

E’ il 1984 quando il quotidiano palermitano L’Ora anticipa i contenuti di alcune indagini allora in corso che riguardano l’ex sindaco del sacco di Palermo, Vito Ciancimino, legate proprio alle indagini e agli arresti che portarono a quell’operazione qualche anno prima. E’ il rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S del 13 aprile 1981, infatti, a riferirvisi, utilizzato poi anche nel processo contro Marcello Dell’Utri (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e la cui pena ha espiato in cinque anni anziché 7 per concessione della libertà anticipata) tuttora indagato sia a Palermo che a Firenze sempre per mafia, nel capoluogo fiorentino è indagato insieme al suo ex datore di lavoro Berlusconi. Ed è da qui che tutto ha inizio, dal punto di vista criminal-giudiziario e anche mediatico. Quasi un bollettino “di guerra” di fatti e misfatti che portano sino ai due processi oggi in corso a Palermo (il secondo grado del processo trattativa Stato-Mafia) e a Reggio Calabria (il processo ‘Ndrangheta stragista). Sono i due processi-cuore del Paese Italia, a loro volta collegati ad altri procedimenti tuttora in corso come quello di Caltanissetta, contro Matteo Messina Denaro accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, e quelli riguardanti il presunto depistaggio di Via D’Amelio sempre a Caltanissetta,  portato avanti  – secondo indagini e processi in corso appunto – da ex poliziotti e magistrati (celebrato questo a Messina). E’ una matassa intricatissima i cui fili sebbene stentino a dipanarsi cominciano ad essere quanto meno individuati.

In quel servizio de L’Ora  emersero rapporti fra il gruppo di una famiglia con affari a Milano (i fratelli Bono) e la Inim, società immobiliare che tentò di acquisire la società Venchi Unica dopo il fallimento del Gruppo Sindona. E’ una storia questa che da sola meriterebbe un approfondimento ma che al momento lasciamo così. E’ dalle intercettazioni di quelle indagini che si scoprono i rapporti personali fra Marcello Dell’Utri e Vittorio Mangano, trafficante di stupefacenti operativo a Milano, e parte della cosca mafiosa capeggiata da Rosario Spatola. Fu la prima volta che la stampa ne scrisse, poi più nulla, fino alla famosa (ma non per tutti) intervista che il giudice Paolo Borsellino il 21 maggio 1992 rilasciò  ai giornalisti francesi Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi. L’intervista fu trasmessa soltanto nel 2000 da Rainews 24 e non per intero, ma nel 1994, il settimanale L’Espresso ne aveva pubblicata la trascrizione. Nella intervista, che precede di soli due giorni la strage di Capaci, Paolo Borsellino fa intendere ai giornalisti – consegnando loro delle carte – che vi erano delle indagini aperte sui legami fra imprenditoria del Nord e Cosa Nostra e pressato dalle domande dei giornalisti, ma senza poterlo concretamente affermare, fa capire come il riferimento di quelle indagini fosse proprio il legame fra Mangano e Dell’Utri (e di conseguenza Berlusconi). In quelle vecchie indagini della Criminalpol di Milano, invece, la cui intestazione negli allegati al  rapporto recita proprio così:

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Allegato al rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S del 13 aprile 1981 (Fonte Commissione Mitrokhin) 

è incestato l’origine di tutto ciò che andò a svilupparsi poi.

Secondo una notizia apparsa su Il Fatto Quotidiano a luglio del 2019 il giornalista di origini italiane, Fabrizio Calvi, è stato oggetto di rogatoria internazionale da parte della Procura di Caltanissetta per essere sentito come testimone proprio su quella intervista. Il 23 luglio 2019 Calvi rilasciò una intervista a sua volta sul Blog Mafie di Repubblica e disse:”Certamente Mangano è al centro della conversazione. In quel momento si trovava in galera ma era uno sconosciuto. Berlusconi non era ancora al centro dell’attenzione pubblica come poi lo sarà dopo, quando fece il suo partito e divenne presidente del Consiglio. Era un industriale non ancora al centro delle inchieste delle procure siciliane quanto di quelle del nord, dove era già scoppiata Tangentopoli. Ecco, Borsellino voleva evidentemente che fosse resa pubblica la storia di Mangano, accennando molto brevemente ad una inchiesta aperta anche a Palermo su Berlusconi, inchiesta di cui non si è saputo poi più nulla, per quanto io ne sappia. Penso che avrà senz’altro valutato i rischi delle sue parole per le indagini, se non per la sua stessa vita”.
Il giornalista tende a escludere che la intervista da lui fatta a Borsellino potesse essere stata la causa scatenante in sé dell’accelerazione della morte del giudice ma aggiunge, in merito alle carte consegnate loro da Borsellino: 
“Si trattava dell’elenco di tutti i casi giudiziari nei quali era invischiato Berlusconi, tutti documenti giudiziari pubblici. Quando andai a cercarli mi resi conto che li avevo già quasi tutti nel mio archivio. Fu un gesto di cortesia e di fiducia che ancora mi commuove”.

Il 1981 è l’anno fondante di tante storie perché è proprio in quell’anno che il giudice Giovanni Falcone scopre a Palermo, mentre indagava su quello che si sarebbe poi rivelato come il finto sequestro Sindona, i locali della loggia Camea dove spunta anche la tessera di iscrizione dell’ex comandante militare di Ordine Nuovo Pierluigi Concutelli residente nella seconda metà degli anni 70 nel capoluogo siciliano (condannato a diversi ergastoli ora agli arresti domiciliari). Il 1981 è l’anno della scoperta della esistenza – già dal 1965 – della P2 dove Berlusconi entra il 26 gennaio 1978 e sembra ne esca il 31 dicembre 1982. Il 1981 è inoltre anche l’anno dell’omicidio di Stefano Bontade quando lo scettro di Cosa Nostra passa a Totò Riina mentre nel sequestro Moro del 1978 le due fazioni si erano divise sulla possibilità di supportare il governo nel far ritrovare il Presidente della DC. Sono gli anni spartiacque di tanti equilibri fra prima e seconda guerra di mafia e prima e seconda guerra di ‘ndrangheta poi, organizzazione che proprio in quegli anni si fa strada sotto le luci delle azioni roboanti di Cosa Nostra. 

Le parole di Giuseppe Graviano a Reggio Calabria. Le ultime tre udienze del processo che si sta tenendo a Reggio Calabria che ha preso il nome dell’ordinanza che l’ha generato, ‘Ndrangheta stragista, hanno visto risaltare le dichiarazioni spontanee del boss Giuseppe Graviano, soprannominato dai suoi collaboratori “madre natura” e boss di riferimento del quartiere palermitano di Brancaccio (ma non solo) oltre che fedelissimo di Totò Riina. Graviano, già condannato all’ergastolo, è imputato insieme al boss della ‘ndrangheta Rocco Santo Filippone, legato alla potente cosca dei Piromalli di Gioia Tauro, di essere stato tra i mandanti degli agguati ai carabinieri in provincia di Reggio Calabria, in uno dei quali furono uccisi due sottufficiali Antonino Fava e Vincenzo Garofalo mentre pattugliavano l’autostrada Salerno-Reggio Calabria. L’impianto accusatorio della procura di Reggio Calabria nel processo vede come protagonista la ‘ndrangheta, al pari di Cosa Nostra, nell’attacco allo Stato tra il 1993 e il 1994 in quella che fu definita la stagione delle stragi continentali con gli attentati di Firenze, Milano e Roma.

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Archivio Daniele Vianni (VerdeAzzurro notizie) Via Palestro Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea

Graviano per molto tempo, e solo con qualche excursus dichiarativo sibillino in altri processi, non aveva mai chiesto di essere interrogato. Ma dal 23 gennaio 2020 ha cominciato a rispondere in video conferenza alle domande del procuratore Giuseppe Lombardo dopo aver ascoltato le intercettazioni che lo riguardano sulle conversazioni in libertà avute con un altro detenuto Umberto Adinolfi. Lo ha fatto come se fosse stato un dichiarante spontaneo cercando anche di gestire l’interrogatorio e rispondendo di fatto con lunghe dichiarazioni. Tutte e tre le udienze  – la prima solo in modo generico  – sono state condite da dichiarazioni su Silvio Berlusconi negando sin dall’inizio le accuse di stragi e omicidi a Graviano rivolte: sia nei procedimenti passati in giudicato, e nei quali è stato condannato, sia nel processo in questione. Sono certamente parole che sanno di messaggi, come è normale che sia da parte di chi non ha mai smesso di essere e sentirsi un boss, ma sono anche state affermazioni piene di dettagli riguardanti i rapporti di affari che Berlusconi avrebbe tenuto con il nonno di Graviano e che poi sarebbero passati in “eredità” allo stesso Graviano e al cugino. Il punto è che “madre natura” non ha fatto riferimento soltanto a fatti che sono usciti anche sui media e sulle carte di alcune sentenze che l’imputato ha dimostrato di saper analizzare e leggere (per suo torna conto certo ma non solo). Tra le affermazioni da lui pronunciate, infatti, oltre ai presunti 3 incontri che sarebbero stati consumati fra lui, Berlusconi e altre persone da lui non conosciute (udienza del 7 febbraio, riferimento a tre incontri quando Graviano era latitante), e oltre a frecciate lanciate ai vari “misteri d’Italia” dei quali certamente Graviano è a conoscenza anche per via indiretta, tra le cose da lui dette, dicevamo, a colpire sono stati quei riferimenti all’esistenza di carte/accordi privati quindi a elementi che eventualmente potrebbero provare concretamente l’esistenza di quei rapporti.  Rapporti che risalgono – secondo Graviano – alla volontà del nonno materno del boss Filippo Quartararo allora facoltoso commerciante che sarebbe stato incaricato da Cosa Nostra di agganciare Berlusconi  – con cui era in contatto – per investire al Nord. Cosa che sarebbe avvenuta per le pressioni di Giuseppe Greco padre del noto “Papa” Michele Greco che consigliò di investire nel settore immobiliare una cifra di circa 20 miliardi di lire. La carta privata secondo il racconto di Graviano sarebbe servita a occultare i legami di Cosa Nostra con gli investimenti immobiliari del gruppo di Berlusconi, almeno in un primo momento. Graviano insiste:
“Io sono stato arrestato per un progetto che è stato voluto da più persone. È dimostrato dal fatto che ogni giorno ricevevo visite, e non so se venivano registrato. C’erano carabinieri, poliziotti. E alla fine mi hanno detto: ‘Ora l’accuseremo per tutte le stragi d’Italia, da qui non uscirà più. E così è stato. E subito dopo ho ricevuto l’ordinanza di custodia cautelare di Roma”. (Udienza del 14 febbraio 2020). Graviano cerca insomma di addebitare a un grande complotto contro di lui gli arresti che lo hanno visto protagonista. Un riferimento sibillino ma rilevante lo ha fatto durante la prima udienza del 23 gennaio nella quale al pm Lombardo Graviano aveva “consigliato” di andare a vedere il giorno del suo arresto, il 27 gennaio 1994 per capire cosa c’è dietro le stragi. Una prima lettura di superficie  dopo che nelle udienze successive Graviano lo chiarisce è certamente questo “complotto” per incastrarlo. Ma un secondo livello di lettura porta invece all’ufficiale scesa in campo dell’imprenditore poi presidente del Consiglio, il 26 gennaio: il giorno prima. L’avvocato di Berlusconi, Niccolò Ghedini, ha bollato come diffamatorie e prive di fondamento le parole di Graviano e, anzi, le lega a una reazione della mafia contro l’ex premier. Azioni che tuttavia Graviano stesso definisce come vero e proprio “tradimento” nei confronti della compagine mafiosa.

Leggi l’articolo dell’autrice pubblicato sulla testata Euronews la storia che riguarda nel dettaglio l’iscrizione di Berlusconi nelle indagini di Firenze 

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Via D’Amelio (Wikipedia)

Tornando a ‘San Valentino’. E’ proprio dalle ceneri di quelle prime indagini e dal rapporto riferito a inizio articolo (Rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S) che è necessario tornare per analizzare queste dichiarazioni. Nel processo che poi portò alla definitiva condanna di Marcello Dell’Utri, preceduta e seguita da diverse vicissitudini compresa la fuga dell’ex senatore di Forza Italia, poi rientrato in Italia, il pg aveva affermato che “per diciotto anni, dal 1974 al 1992, Marcello Dell’Utri è stato garante dell’accordo tra Berlusconi e Cosa nostra; in quel lasso di tempo”, aveva osservato il pg, “siamo in presenza di un reato permanente”. “Infatti, la Cassazione, con la sentenza del 2012 con cui aveva disposto un processo d’appello-bis per Dell’Utri, aveva precisato che l’accordo tra Berlusconi e Cosa nostra, con la mediazione di Dell’Utri c’è stato, si è formato nel 1974 ed è stato attuato volontariamente e consapevolmente”. La Cassazione nel 2014 confermando a 7 anni la condanna non mise in discussione queste assunzioni. E i rapporti fra Berlusconi, i mafiosi Gaetano Cinà (deceduto nel 2006), Stefano Bontade e Mimmo Teresi e Marcello Dell’Utri sono stati ricostruiti nella sentenza di primo grado del 2004 e recepiti nelle successive fino alla Cassazione nel 2014. Sentenza che si riferisce a un incontro avvenuto tra questi signori nel maggio del 1974. Nelle carte della sentenza contro Dell’Utri si parla del progetto di sequestro a Berlusconi voluto da Michele Greco il Papa – sequestro poi tramontato proprio perché si decise di trattare con l’imprenditore e affiancargli Mangano – secondo quanto riferì un collaboratore di giustizia, Antonino Giuffrè. Greco-figlio il cui padre secondo Graviano avrebbe consigliato l’investimento nelle costruzioni di Milano 2 o 3. Degli stessi investimenti senza un riferimento preciso quanto quello di Graviano ha parlato un altro  collaboratore di Giustizia Francesco Di Carlo.  Ed è sempre in queste carte che si parla della telefonata fra Dell’Utri e Mangano acquisita dalle carte sulle indagini della Criminalpol dell’81 che indagava fra imprenditoria del nord, cosa nostra e ‘ndrangheta. A carico di dell’Utri infatti erano stati emessi, riferisce la sentenza, “una comunicazione giudiziaria ed un decreto di perquisizione” secondo l’articolo 416bis.  La sua posizione fu poi separata nel 1987 e con sentenza del 24 maggio 1990  di Milano si ritenne “insussistente la prova dell’inserimento dell’imputato Dell’Utri nel sodalizio mafioso operante a Milano”. Sono gli anni quelli  indicati nella sentenza Dell’Utri ai quali fa riferimento il racconto di Graviano? La domanda è lecita.

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ATTENTATO SAN GIOVANNI IN LATERANO (ROMA)

‘Ndrangheta e Cosa Nostra. Del tentativo di sequestro di Berlusconi, del quale la sentenza contro l’ex senatore di Forza Italia si parla e viene recepita nell’insieme come elemento significativo dei rapporti fra Berlusconi e Cosa Nostra mediati da Dell’Utri,  esiste anche la dichiarazione di Angelo Siino, ex ‘ministro dei lavori pubblici’ di Totò Riina e collaboratore di giustizia considerato credibile da sempre, che  durante una udienza del processo contro Andreotti nel 1997 fa riferimento alla ‘ndrangheta, ossia alle famiglie vertice della organizzazione calabrese, svelando così un diverso più recondito risvolto sui tentativi di rapimento dell’imprenditore e/o dei suoi figli. A rivelare per primi questa importante dichiarazione è il Corriere della Calabria nel 2013 (lo stesso anno della sentenza a Dell’Utri poi confermata dalla Cassazione) ma sono contenuti presenti nelle carte al processo Andreotti per mafia appunto, emersi soltanto alcuni anni dopo. Qui entra in scena un importante elemento cerniera tale Enzo Cafari (di cui ho scritto ne La Criminalità servente nel caso Moro , a proposito dell’omicidio del giornalista Pecorelli).

SILVIO BERLUSCONI E GIULIO ANDREOTTI

Giulio Andreotti Min. esteri e Silvio Berlusconi 1984 (Wikipedia)

Siino, riferisce la stessa sentenza di Palermo contro Andreotti e più in là negli anni recepita anche dalla sentenza contro dell’Utri, parla di un viaggio fatto a Milano con il massone calabrese Cafari – legato a tante storie delicate di ‘ndrangheta –  e Bontade per  cercare di convincere i calabresi – i Condello – a non rapire Berlusconi. Nelle confessioni di Siino c’è tutto il mondo descritto sopra: Sindona, la loggia Camea (“espressione nazionale rappresentata a Palermo  dalla loggia Orion”) gli incontri con personaggi di spicco della ‘ndrangheta. Insomma la rete tessuta intorno a Dell’Utri e Berlusconi.

In quelle rivelazioni di Siino, infatti, si comprende come i rapporti fra Cosa nostra e ‘Ndrangheta fossero già cementati negli anni 70 e negli anni delle “stragi continentali” divengono dirimenti per una comune strategia. Il direttore allora del Corriere della Calabria, Pollicheni,  che aveva condotto l’inchiesta e rivelato le parole di Siino, aveva affermato in una intervista su Il Sussidiario:

Per la ‘Ndrangheta Berlusconi era solo un ricco imprenditore. Per Cosa nostra, che all’epoca era la leadership criminale, il Cavaliere era molto di più. Non dimentichiamo che era l’uomo della P2, tanto è vero che per salvarlo si mobilitò anche la Massoneria. Berlusconi stava iniziando a gestire le reti e i ripetitori per costruire il suo impero televisivo e si accingeva ad acquistare la Standa, da cui avrebbe tratto benefici anche Cosa nostra. Era inoltre un imprenditore vicino al Partito Socialista, cioè agli ambienti craxiani e quindi ai cementi della famiglia Gardini. Per Cosa nostra poteva rendere quindi molto di più farsi amico Berlusconi piuttosto che rapirlo.”

Le vicende della gestione delle reti e dei ripetitori per costruire l’impero televisivo sono tutte state recepite nella sentenza Dell”Utri.

E’ solo un’analisi questa dei fatti che si sono alternati in questi anni  sotto una luce nuova e i loro collegamenti con le recenti vive vicende dei processi che sono in corso.

 

L’articolo ripreso da Antimafia 2000

NOTE: LE IMMAGINI UTILIZZATE PROVENGONO,  A ECCEZIONE CHE LA’ DOVE DIVERSAMENTE INDICATO, DA WIKIPEDIA. IN PARTICOLARE, PER LA FOTO DELL’ATTENTATO A SAN GIOVANNI IN LATERANO A ROMA WIKIPEDIA INDICA UN AUTORE ANONIMO: “INDECISO 42”. NEL CASO DI RIVENDICAZIONE AUTORIALE E RICHIESTA DI RIMOZIONE PREGO CONTATTARE L’INDIRIZZO simozecchi@gmail.com

QUESTO ARTICOLO PUBBLICATO SU BLOG PERSONALE DELL’AUTRICE E GIORNALISTA SIMONA ZECCHI RISPETTA TUTTI I CRISMI DEONTOLOGICI COSI’ COME INDICATI NEL TESTO UNICO DEL GIORNALISTA ED E’ INEDITO (ALLRIGHTS RESERVED) 

 

Aldo Moro – Il meno implicato

lucciole

“Nella fase di transizione – ossia durante la scomparsa delle lucciole – gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ’69 a oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere”

“Il vuoto del potere” – ovvero l’articolo delle lucciole – Pier Paolo Pasolini 01 febbraio 1975

“E come se, dentro al Palazzo, tre anni dopo la pubblicazione sul <Corriere della Sera> di questo articolo di Pasolini, soltanto Aldo Moro continuasse ad aggirarsi: in quelle stanze già sgomberate. Già gomberate per occuparne altre ritenute più sicure: in un nuovo e più vasto Palazzo. E più sicure, s’intende, pe ri peggiori. “Il meno implicato di tutti”, dunque. In ritardo e solo: e aveva creduto di essere una guida. In ritardo e solo appunto perché “il meno implicato di tutti” destinato a più enigmatiche e tragiche correlazioni”

“L’Affaire Moro” – Leonardo Sciacia 1994

Risposta di Pier Paolo Pasolini a Italo Calvino – 8 luglio 1974

<<Che degli altri abbiano fatto finta di non capire è naturale. Ma mi meraviglio che non abbia voluto capire tu (…) Io rimpiangere l’Italietta? Ma allora tu non hai letto un solo verso delle Ceneri di Gramsci o di Calderón, non hai letto una sola riga dei miei romanzi (…) Perché tutto ciò che io ho fatto e sono, esclude per sua natura che io possa rimpiangere l’italietta>>

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– Da Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in Scritti Corsari, apparso già in Paese Sera come “Lettera aperta a Italo Calvino: Pasolini, quello che rimpiango”

L’inchiesta avocata a Donadio sulle stragi Falcone-Borsellino e il Protocollo Fantasma

di Simona Zecchi

Se tutti i giorni del primo dell’anno fossero illuminanti come questo sarebbe sempre un bel giorno per il giornalismo.

Questo pensiero, da puro apripista per un post di un blog personale, può sembrare poco modesto ma in realtà è una provocazione perché le vicende che hanno percorso quasi tutto l’anno appena trascorso, riguardanti  l’inchiesta del titolo e il cosiddetto processo sulla trattativa stato-mafia hanno spesso rasentato l’onta del ridicolo e del puro depistaggio. E’ una provocazione anche verso giornalismo mainstream  di oggi spesso poco incline al ragionamento e al collegamento dei fatti perchè scomodo oppure troppo  fuori dai “canoni di pubblicazione”.

I Fatti dell’Anno. Vediamo un pò:  ad inizio anno, l’erede di un fantasma di un’epoca che fu (e che sembra mai tramontare) si rifà vivo: il Corvo. Una prima lettera anonima inviata all’attenzione del Pm Di Matteo lo avvisa che è monitorato da alcuni ‘uomini delle istituzioni’. Ne seguiranno altre nel corso dell’anno. Sembra però un altro tipo di “corvo”, non un alimentatore di veleni tra le procure, ma forse un investigatore che non ha mai accettato le logiche annebbiate di certi processi e certe indagini le quali spesso rimangono appese a un limbo infinito oppure finiscono in assurde archiviazioni;  il fantomatico scoop sulla ricomparsa dell’agenda rossa che in realtà era una parte di  parasole rossa che emergeva tra i resti fumanti di una delle auto blindate del magistrato Paolo Borsellino (La Repubblica maggio 2013); le varie diatribe durante le indagini preliminari per il processo sulla trattativa, via via proseguendo con gli arresti in merito alle indagini sulla strage di Capaci che sembravano suggellare la sola mano mafiosa nell’attentato (secondo anche le dichiarazioni della procura di Caltanissetta) assunzione che  poi invece fu smentita con la stessa inclusione nel registro degli indagati di “faccia da mostro” un ex poliziotto ormai in pensione il cui soprannome di tanto in tanto compariva nei vari filamenti dei misteri cuciti addosso allo Stivale (dalla protezione a Ciancimino Sr. alle morti dei due agenti Emanuele  Piazza e Nino Agostino). Faccia da mostro ora ha anche un nome Giovanni Aiello, che il padre di uno degli agenti morti (Vincenzo Agostino) avrebbe riconosciuto come colui che comparve per cercare il figlio, quando non in casa, pochi giorni prima della sua morte. La sua e quella della moglie in cinta. In mezzo a tutto questo, l’improvvisa avocazione al Pm Gianfranco Donadio dell’inchiesta sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio, che già nel lontano ’93 e su mandato dell’allora PNA Grasso, stava svolgendo un’inchiesta solitaria e parallela. E poi: la scomparsa del collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice a cui sono  succeduti nell’ordine: due memoriali e un nuovo arresto. Memoriali che sancivano la piena ritrattazione dell’ex pentito sulle precedenti dichiarazioni, le quali puntavano le accuse su una parte della magistratura antimafia ma soprattutto su Donadio. C’è un altro collaboratore ad oggi ritenuto affidabile   da ben 9 procure nazionali più una straniera (checché ne dica Nando dalla Chiesa che lo ha attaccato in ben due articoli- uno suo sul “Fatto Quotidiano” e un altro in cui era intervistato dal sito Stampo Mafioso): Luigi Bonaventura. Bonaventura sin dal 2007 collabora con i magistrati e svela crimini e misfatti anche politici che aveva raccontato prima ai giudici e poi ai media, così come  la “tecnica di avvicinamento” di soggetti appartenenti alla ndrangheta (e non solo) per indurre i “buoni” collaboratori a ritrattare, nonché il “programma” sui falsi pentiti. Bonaventura ha ricostruito con la sottoscritta in un articolo per Antimafia Duemila (qui)  , quello che può succedere a un collaboratore che vuole fare solo il suo dovere mentre è sotto il programma di protezione.

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(nella foto Luigi Bonaventura)

Le conseguenze. E di nuovo come contorno a tutto questo restano le conseguenze che non sono entusiasmanti: l’inchiesta di Donadio su eversione- nera-mafia e istituzioni come concorrenti tutti  nelle stragi di 20 anni fa, sfuma per sempre; la guerra tra procure se possibile diventa ancora più aspra, i giochi di potere e di complotto interni alle stesse non si fermano mai, le intercettazioni fra l’ex Ministro Mancino e il due volte Presidente della Repubblica Napolitano vengono distrutte come conseguenza del conflitto di attribuzione da lui stesso sollevato l’anno precedente (dimostrando cosi che qualcosa da nascondere l’avesse quanto meno, come controcanto alle sue continue chiamate a svelare tutte le verità della nostra storia…). Intanto l’avvocato Rosario Pio Cattafi personaggio che vive, stando alle indagini e alle accuse nella requisitoria, fra eversione nera, istituzioni più o meno deviate e massoneria, viene condannato proprio a fine anno 2013 nel processo “Gotha3”  con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Insomma non è un bell’anno né per l’antimafia (che tra l’altro si lascia “sfuggire” la possibilità di catturare Matteo Messina Denaro ma non era certo la prima volta: da Nitto Santapaola passando per Riina e Provenzano, la storia continua a ripetersi)  né tanto meno per la mafia militare: tra sequestri di beni per milioni di euro, condanne e arresti a iosa. E’ tempo di riorganizzazioni e di intese.

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Le inchieste. Poi proprio in questi giorni esce un libro di Walter Molino (giornalista di “Servizio Pubblico”): “Protocollo fantasma – Dossier silenzi e segreti di stato: strategia della tensione al tempo delle larghe intese” (Il Saggiatore, 2013) che non è l’unico sulla questione (il documento segreto ma conosciuto ormai da tutti su uno speciale protocollo fra DAP e Servizi segreti dal quale sono esclusi gli organi inquirenti ufficiali alias la magistratura): nel 2012 infatti la seconda edizione del libro di Maurizio Torrealta e Giorgio Mottola “Processo allo Stato” (Bur edizioni, novembre 2012) ne parla ampiamente. Ma il libro di Molino fa un altro lavoro (direi ottimo, a parte qualche licenza da romanziere in alcune parti: ma si sa alcune cose possono essere a volte solo raccontate come “fiction”) di collegamento fra tale documento e alcuni fatti che hanno lastricato le vie dei misteri italiani sulle vicende di mafia e non solo: dalla gestione della cattura di Provenzano, preceduta dalla vicenda Macrì-Cisterna-Vigna-Grasso e la prima tentata resa di zio Binnu nel 2003 (o asta al miglior offerente visto che lo Stato anche per ragioni politiche era pronto a pagare un mediatore 2 milioni di euro per farlo suo  dopo quasi 40 anni, allora, di fuga protetta o latitanza), fino appunto alla sempiterna trattativa stato mafia che in fondo include tutte queste vicende, sono parti di un tutto. All’interno anche una ricostruzione della vicenda della fuga di Lo Giudice  e l’inchiesta avocata a Donadio. Sono esposizioni di fatti e in questa parte Molino non collega apertamente l’esistenza del protocollo con la gestione del Lo Giudice. Però se è lecito ancora ragionare mi ha appunto illuminato su un punto cui sono giunta avendo seguito tutto e avendo parlato del doppio livello e di doppio commando nelle stragi di capaci (soprattutto) e Via D’Amelio partendo da Portella della Ginestra in un’intervista a Stefania Limiti sul libro uscito ad Aprile di  quest’anno: “Doppio Livello –  come si organizza la destabilizzazione in Italia” (Chiarelettere, 2013). Libro quindi che già prima di Molino e in maniera storico-giudiziaria dimostra come certe operazioni “sotto falsa bandiera” possano aver contribuito a cambiare gli eventi del nostro paese attraverso stragi depistaggi et similia. Alla presentazione del libro c’era per la prima volta il magistrato Donadio che pur non rilasciando specifiche dichiarazioni con la sua presenza ha firmato la sua esposizione (legittima perché comunque titolare di un’indagine e non lesiva di alcuna rilevazione d’ufficio). Il magistrato come spiego bene in quell’articolo aveva già parlato dell’inchiesta  in occasione di un’intervista per Rainews24 il 17 maggio 2012 ed era quanto meno evidente che l’inquirente non avesse molti amici a sostenerlo in questo lavoro. (Prova ne fu la fuga di notizie sulla sua relazione alla DNA con novità che riguardavano faccia da mostro soprattutto. Fuga di notizie perpetrata da due giornali “Il Sole24” e “L’Ora della Calabria” il 12 settembre scorso. Dei due giornali solo quest’ultimo tuttavia ha subito perquisizioni e indagini dalla Procura). Ma torniamo al Lo Giudice: la domanda, dopo quella fuga di notizie e prima ancora  con la fuga “fisica” dell’ex collaboratore, come dire… sorgeva spontanea: cosa poteva mai sapere un boss non di grande calibro (ma vicino ai Pelle-De Stefano) con la trattativa stato-mafia? Donadio lo aveva interrogato in merito proprio per la sua inchiesta, probabilmente perché il più “fresco” tra i collaboratori, che però come adombra un pò Molino pare che avesse iniziato già a collaborare in maniera non ufficiale prima. Fresco e quindi eventualmente più al corrente degli ultimi sviluppi e di qualche confidenza legata a fatti che tarvalicano i meri crimini della “mamma”. Vediamo cosa prevede questo benedetto Protocollo fantasma nel dettaglio? Scrive Molino:<< (…) cosiddetto Protocollo fantasma, un accordo vincolato dal segreto di Stato tra il Dap e l’ex Sisde per la gestione dei più importanti e pericolosi detenuti in regime di massima sicurezza. Un circuito informativo parallelo che ha consegnato di fatto le carceri ai servizi, tagliando completamente fuori la magistratura.>> Di questo protocollo, come continua Molino, sappiamo tutto (“interrogazioni parlamentari e inchieste giornalistiche”) ma nessuno lo ha mai visto, appunto  un protocollo fantasma ma operativo. Nel libro i protocolli sono due: uno riferito al dossier ricevuto dai magistrati della procura di Palermo dal “Corvo2”, l’altro quello specifico stilato e approvato da membri interni al Dap e istituzioni sulla gestione di detenuti importanti che ha anche un nome “leggero”, quello di farfalla. La farfalla si posa e non lascia tracce, mai nome fu più azzeccato.

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(nella foto Gianfranco Donadio)

Conclusioni. Lo Giudice viene arrestato nel 2010 e dopo pochi giorni si pente, come scrive giustamente Molino ricostruendo la sua storia dopo l’arresto. Cosa gli succede a un certo punto dopo che alcuni fatti da lui dichiarati erano stati riscontrati dalle indagini? Chi subentra e manipola “tagliando completamente fuori la magistratura” fino al punto da non sapere che già collaborasse (e in che modo poi?), fino a sporcare i lembi di chi indaga su infiltrazioni e doppi livelli? Che il protocollo sia ancora utilizzato?

Una piccola illuminazione quest’ultima in un giorno che accende l’anno che verrà: in cui non mancheranno nuovi corvi, nuovi depistaggi e clamorosi “scoop” o notizie sottratte agli inquirenti senza però mai avvicinarsi alla verità. C’è rimasto solo il ragionamento (e su un blog personale, un giornale per carità…!).

Pasolini, l’ombra dei picchiatori fascisti – Pino Pelosi ricostruisce la notte dell’omicidio del poeta. E conferma la presenza all’idroscalo di Ostia di almeno altre sei persone oltre a lui

Articolo pubblicato su Il Manifesto il 6/12/13 (versione cartacea)

di Simona Zecchi – Martina Di Matteo

Centoventi testimoni sentiti, 19 nuovi profili genetici e nuove intercettazioni. Sono le novità che sarebbero emerse nelle indagini sulla morte di Pier Paolo Pasolini. Nell’intervista che segue, Pino Pelosi sviscera alcuni nuovi dettagli che gettano una luce diversa su motivazione e ambiente in cui sarebbe maturato il delitto, esortando gli inquirenti a cercare anche tra la cerchia di persone più vicine a Pasolini, nella borgata. Pelosi punta poi il dito su quanti tra politici, familiari e amici sanno la verità o sanno dove cercare ma non si impegnano. La notte del 2 novembre 1975 ancora non svela il volto in chiaro degli assassini ed eventuali mandanti.

Le indagini stanno andando avanti: cosa ne pensi di ciò che è appena uscito? Pelosi ride beffardo: Spero che approdino davvero a qualcosa, io ho già fatto i nomi dei Borsellino al tempo, gli altri 4 non li conoscevo, era notte e non si vedeva nulla

Pino, tu avevi indicato delle persone presenti quella notte, un numero preciso. Oltre a te, altri 6: i Borsellino, due picchiatori insieme all’uomo con la barba, un uomo nella seconda macchina (nel 2010 un nuovo testimone Silvio Parrello rivelò della presenza di una seconda macchina e l’identità dell’uomo che l’avrebbe guidata). L’uomo con la barba ti avrebbe minacciato. Durante la prima intervista, dopo 30 anni di silenzio, avevi dichiarato che l’uomo avesse un accento siciliano. Elemento che non hai più ritrattato. Confermi?

Lo avevo detto per depistare, era italiano, basta.

Gli altri due erano romani? I Borsellino, di cui tu hai già parlato erano vicini al circolo Msi del Tiburtino. Anche i due picchiatori facevano parte dello stesso ambiente? Si, poteva essere.

Nel 2011 hai rilasciato alcune dichiarazioni a Valter Veltroni in cui asserivi che la tua prima deposizione ti fosse stata imbeccata. È così? Confermo di essere stato minacciato dall’uomo con la barba, che mi ha gettato l’anello sul posto e mi ha detto di inventarmi la versione. In carcere poi mi venivano a trovare per dirmi di continuare così.

Avevi 17 anni, come hai fatto ad avere sempre la lucidità per mantenere la stessa versione ogni volta? Ero un ragazzino: a vivere nel terrore rimani lucido, freddo e concentrato a non sbagliare.

Quando hai ricevuto in carcere il famoso telegramma che indicava Rocco Mangia come nuovo difensore da nominare, hai mai pensato che avessero proposto denaro ai tuoi genitori? E come facevano a conoscere Francesco Salomone (l’allora giornalista de «Il Tempo», tessera P2 nr. 1911- Ansa 21/05/1981, che aveva indicato ai genitori di Pelosi di assumere Rocco Mangia come avvocato, (ndr)? A me non piacciono queste associazioni con quel mondo. Dicevano che Rocco mangia era l’avvocato degli assassini del Circeo e dei fascisti.

Certo, ma quello era in buona parte il mondo da cui proveniva la manovalanza. Si ma io non c’entro niente con quel mondo.

L’uomo con la barba è vivo? (ride) Gli altri due, sono morti? I due picchiatori? Non li ho visti bene ma erano più giovani del “barbone” che all’epoca aveva 40 anni. Quell’uomo era più importante dei picchiatori, gestiva tutto. Certo potrebbe appartenere all’altro livello.

Non lo conosci o hai paura? Non so nulla. Però mi chiedo perché non interrogano anche tra le passate conoscenze dello scrittore, Ninetto davoli: perché ha fatto rottamare la macchina che Pasolini gli aveva lasciato? Perché non glielo chiedono? La macchina di pasolini poteva essere ulteriormente analizzata.

Se, come hai detto, il sangue sul tettuccio della macchina (lasciata poi incustodita dall’autorità giudiziaria, ndr), sangue lavato via dalla pioggia, era di Pasolini, cos’altro potevano trovare in quella macchina, oltre ai reperti rinvenuti e oggi sotto esame? Sotto il sedile

Cosa poteva esserci sotto il sedile? Non lo so. Sotto il sedile.. niente…

Cosa c’era? Ma l’accendino mio l’hanno trovato?

E’ importante questo accendino? Può essere importante come l’anello. Dov’è, chi l’ha preso? E’ sparito.

Ricostruiamo quella notte: tu eri davvero al ristorante con lui quella sera o eri già all’Idroscalo? No io ero con lui e con lui sono andato all’idroscalo

Vincenzo Panzironi proprietario de «Il Biondo Tevere» fece una tua descrizione che però non sembra corrisponderti (biondo, con i capelli lunghi fino al collo nda) Può darsi che Panzironi abbia fatto confusione con i giorni: il giorno prima Pasolini era in compagnia di un biondo.

Dove ti hanno fermato i carabinieri quella notte? Non mi hanno arrestato davanti alla fontanella di Piazza Gasparri ma davanti al locale Tibidabo”

Sei scappato da solo su quella macchina?

Chi era l’uomo che guidava la seconda macchina? Non lo so. Non si vedeva da qui a tre metri. Ho visto invece bene in faccia l’uomo con la barba, assomigliava all’ispettore Camilli della foto (riferimento alla foto de Il Tempo del 4 dicembre 2013, ndr)

Dici di non conoscere i due picchiatori ma hai fatto i nomi dei fratelli Borsellino quando erano già morti, sarà così anche per i due picchiatori? Non dirò mai nulla. I Borsellino quando sono andati via: prima o dopo di te?

Non li vedevo perché erano lontani, non so nemmeno se hanno partecipato anche loro al pestaggio. Ma sono arrivati dopo, con la moto.

Riprende poi dal mazzo dei ricordi: <<Un massacro orrendo che ho potuto rivivere interamente solo durante le riprese del film di Federico Bruno, (film diretto e prodotto da Bruno: «Pasolini. La Verità nascosta») Mi ha fatto impressione vedere Alberto (Testone l’attore che interpreta il poeta e saggista, con tutto il sangue addosso… Quella sera gridava mamma mi stanno ammazzando.

Perché eravate lì? Per recuperare le pizze del film: Pasolini ci teneva molto, erano gli originali e voleva proprio quelle.

Chi ti ha detto che era per le bobine l’incontro? I Borsellino. E a loro chi lo ha detto? Non lo so, quando fai certe cose non chiedi niente. Dovevo guadagnare due lire per portarlo lì ma non sapevo cosa sarebbe successo dopo, non sapevo dell’agguato. I suoi amici lo hanno usato, come Citti, l’ho scritto nel mio libro («Io so… come hanno ucciso Pasolini. – Storia di un’amicizia e di un omicidio», Vertigo 2011).

Non lo avete usato un po’ tutti lì in borgata? No, io c’ho solo rimesso famiglia, vita tutto.

In una recente intervista hai fatto riferimento a un uomo politico dicendo: «chi indaga dovrebbe andare a citofonare a certe persone, come a casa di quel politico lì… quello famoso». Un politico del presente o del passato? Una dichiarazione mal interpretata non mi riferivo a un politico in particolare. Anche se fosse così non lo direi, non dirò più nulla. Poi il riferimento era se mai a tutta quella classe politica a lui vicina che non si muove davvero per scoprire chi lo ammazzò.

Chi sono gli intoccabili di cui parli più volte? Qualcuno è morto qualcuno è vivo

Secondo la tua esperienza, per com’erano le cose in quegli anni, cosa significava pestare quasi a morte qualcuno? Una punizione, una tortura… forse per qualcosa che lui aveva scritto sui giornali causando danni a qualcuno. Bisognerebbe capire chi c’era oltre, qual era l’altro livello.

Le verità sulla morte di Pasolini sul nuovo numero de “I quaderni de L’Ora”

Le verità sulla morte di Pasolini sul nuovo numero de “I quaderni de L’Ora”

di Giorgia Cardinaletti pubblicato su Il Messaggero on line il 16/02/13

Tra gli autori degli undici capitoli del libro, Walter Veltroni, Gianni Borgna (ex assessore alla Cultura del comune di Roma), Carla Benedetti, docente di Letteratura italiana contemporanea dell’Università di Pisa

ROMA – La verità sulla morte di Pasolini. È questo l’obiettivo del nuovo numero de “I Quaderni de L’Ora” (editrice la Palma), rivista di approfondimento che riunisce tanti dei giornalisti dello storico quotidiano di Palermo “L’Ora”, dedicato interamente alla morte dell’intellettuale.

«La nostra è un’avventura editoriale – spiega Giuseppe Lo Bianco, direttore della rivista – in cui abbiamo voluto fare il punto delle indagini, raccogliere le esperienze di autori e colleghi che si sono occupati del caso con l’obiettivo di offrire un contributo di idee e di connessioni logiche volte alla scoperta della verità».

Cosa c’entra l’omicidio Pasolini con la morte di Mattei e del giornalista de “L’Ora” Mauro De Mauro? Chi era Graziano Verzotto e perché la sua figura è centrale nell’inchiesta? Cosa è successo davvero quella notte fra il 1 e il 2 novembre del 1975 quando il corpo di Pier Paolo Pasolini fu trovato in una pozza di polvere e sangue all’Idroscalo di Ostia? Walter Veltroni, Gianni Borgna, ex assessore alla Cultura del comune di Roma, Carla Benedetti, docente di Letteratura italiana contemporanea dell’Università di Pisa, lo storico Giuseppe Casarrubea, i giornalisti Walter Rizzo, Rita Di Giovacchino, Giuseppe Pipitone Mario Dondero, Martina Di Matteo, Simona Zecchi. E ancora Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, autori di “Profondo Nero” (Chiarelettere 2009) nel quale si delinea un filo unico tra la scomparsa di De Mauro, Mattei e Pasolini.

Questi gli autori degli undici capitoli del quaderno monografico “Pasolini profondo nero”. Quella di Zecchi e Di Matteo è un’inchiesta inedita: «Abbiamo scoperto – spiega Zecchi – che esiste una parte di incartamenti mai fatti rinvenire prima nascosti in stanze segrete i quali ricondurrebbero alla nostra pista: ossia l’esistenza di un’altra auto sul luogo del delitto quella notte e quindi la conferma che a uccidere Pasolini non fu un minorenne ma un gruppo folto di persone organizzate».

A commentare l’ottavo numero della rivista, durante la presentazione alla libreria Notebook dell’Auditorium Parco della Musica, anche Andrea Purgatori, giornalista e sceneggiatore, autore del soggetto de “Il muro di gomma”, film di Marco Risi sulla strage di Ustica. «Dopo l’omicidio di Pasolini sono andato a parlare con gli amici di Pelosi – racconta – e ho costruito un documentario-inchiesta sul materiale trovato. Ricostruire la verità significa fare l’operazione contraria rispetto a chi cerca di slegare gli elementi limitando, così facendo, il peso delle responsabilità».

Presente in sala anche Stefano Maccioni, avvocato di Guido Mazzon, cugino di Pasolini. È stato lui insieme alla criminologa Simona Ruffini (entrambi autori, insieme a Walter Rizzo, di “Nessuna pietà per Pasolini”, Editori Riuniti) a contribuire alla riapertura delle indagini nel 2009: «Ci siamo mossi cercando di applicare le moderne tecniche di investigazione. Nel 2010 sono emersi degli elementi importanti, mi auguro che il lavoro svolto dalla Procura porti a modificare le motivazioni della sentenza che condannò Pelosi». Tra il pubblico anche Silvio Parrello, un ex ragazzo della borgata di Donna Olimpia che conobbe Pasolini, la cui testimonianza ha portato a far emergere due carrozzieri, uno dei quali avrebbe riparato un’auto uguale a quella di Pasolini che riportava tracce di sangue.

 

 

LA MORTE DI PIER PAOLO PASOLINI. L’AUTO SCOMPARSA E UN TESTIMONE.

di Simona Zecchi articolo originale da Satisfiction 

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Considerare l’omicidio di Pier Paolo Pasolini un delitto come gli altri, soprattutto se non facente parte, nelle modalità, di quella schiera di omicidi “classici” che si citano per dare un senso agli avvenimenti la cui interpretazione resta difficile, e nonostante tutto il tempo passato, è un errore che non ci si può più permettere. Un delitto come gli altri o peggio un delitto “maturato nell’ambiente omosessuale”: questa, in base all’unica sentenza ufficiale, la vulgata comoda a molti rigirata a coloro che secondo questa moltitudine non ha mai accettato l’omosessualità, nemmeno a sinistra. Vulgata appunto.

Se questa volta le indagini ancora in corso, riaperte dalla Procura di Roma ormai quasi 3 anni fa, non riescono ancora ad apporre la parola fine su quel capitolo di storia, allora si può avere l’ardire di sperare che non tutto deve concludersi come sempre in Italia. In parte quest’affermazione simil-utopica è però confermata dalla recente sentenza civile sulla strage di Ustica che riscriverà la storia e la cronaca italiane di quel giorno di 33 anni fa: “E’ stato un missile”. Lo hanno gridato per anni giornalisti e registi con fatti alla mano (Andrea Purgatori nella sceneggiatura de “Il muro di gomma” di Marco Risi e di più Fabrizio Colarieti che con il libro “Punto Condor” – ed. Pendragon, 2002 – scritto insieme a Daniele Biacchessi aveva già portato alla luce una verità che persino gli americani avevano scritto “E’ stato un missile”: non un incidente né un attentato interno al velivolo.) Ecco questa è la speranza e insieme la premessa. Due anni fa, mentre cercavo di trovare un senso al “fattaccio” dell’Idroscalo, prima leggendo e rileggendo gli scritti di Pasolini poi andando incontro ai fatti senza retorica e facendo a meno delle verità precostituite, ho incontrato la collega Martina di Matteo. Insieme abbiamo unito le forze (documenti, fonti e ricerche) spesso ricominciando da capo, ma sempre con un punto fisso: la ricerca della verità. Assioma questo per molti, soprattutto per “gli anti-complottisti”, che fa ridere e sicuramente farà sorridere in modo beffardo ancora una volta. Questo non ci disturba e non frena il nostro lavoro con tutta l’umiltà e la caparbietà possibili.

L’inchiesta finora inedita, frutto del lavoro mio e di Martina, il cui estratto è ora gentilmente ospitato dalla rivista “Satisfiction” è contenuta per intero nel numero monografico su Pier Paolo Pasolini de “I Quaderni de l’Ora” (edizioni Ila Palma-Micromedia, Palermo), rivista d’inchiesta, cultura e analisi politica che ha riaperto le pubblicazioni a fine 2012. Il numero, diretto da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, oltre a contenere altrettanti estratti di inchieste sulla morte dell’intellettuale dei giornalisti che se ne sono occupati, è sostenuto in gran parte da quel filo che lega le morti di Mattei De Mauro e Pasolini, le prime due confermate anche nelle motivazioni alla recente sentenza dei giudici di Palermo che nell’assolvere Totò Riina attribuiscono ad altri fattori la responsabilità della scomparsa del giornalista de “L’Ora”, il cui corpo o resti non furono mai ritrovati. La rivista è in sé preziosa anche per la presenza dei contributi fotografici e saggistici come i lavori di Mario Dondero e il contributo critico della saggista . Alcune poesie di Pasolini poi arricchiscono la pubblicazione aggiungendo valore culturale e di testimonianza.

Di seguito solo un brano che rivela però il filo conduttore del lavoro svolto da noi: il mistero della seconda macchina. Finora solo un testimone alla riapertura delle indagini ha dichiarato qualcosa in questo senso: un fatto che non si è mai chiarito e che noi abbiamo provato ad illuminare, attraverso nuove testimonianze e andando alla ricerca di verbali in parte dimenticati in parte nascosti, sulle ore immediatamente successive alla mattanza. Venerdì 15 presso la libreria Notebook dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, dalle ore 18, alcuni autori e ospiti presenteranno la rivista che sarà anche disponibile per chi desidera acquistarla.

di Simona Zecchi – Martina Di Matteo

Ostia – Roma. Nella notte fra il 1 e il 2 novembre del 1975 il corpo di Pier Paolo Pasolini viene trovato in una pozza di polvere e sangue all’Idroscalo di Ostia. Sono le 6.30 del mattino e le voci degli abitanti delle baracche, per la maggior parte abusive, si sfilano sommesse mentre le prime luci dell’alba fanno capolino. Solo la signora Maria Teresa Lollobrigida si rende conto, all’inizio scambiandolo per un grumo di rifiuti, che la poltiglia di carne corrisponde alla sagoma irriconoscibile di un uomo. E’ il corpo di Pasolini ma lo si scoprirà solo dopo, a circa un’ora dal ritrovamento, quando lo si collegherà al furto di un’auto avvenuto nella notte a molte ore di distanza.

È una morte quella dell’intellettuale che entra immediatamente a far parte di quella storia di delitti eccellenti e stragi di Stato dell’Italia degli anni di piombo. Sono gli anni centrali della strategia della tensione che vedono l’alternarsi una serie di attentati efferati, addebitati a entità altre rispetto alle organizzazioni strettamente terroristiche di destra e di sinistra. Una tensione che ha inizio con la strage di Piazza Fontana nel 1969 e che si scioglie apparentemente nel 1984 con l’attentato del rapido 904. In quest’arco di tempo e in particolare negli ultimi anni fino alla sua morte, Pier Paolo Pasolini scrive, raccoglie informazioni e denuncia con l’intento di riunire tutto in una grande summa letterario-giornalistica, “Petrolio”. L’opera rimane però incompleta a causa della sua morte violenta e vedrà la pubblicazione solo 19 anni dopo. Pier Paolo Pasolini ha ancora molto da dire quando viene ucciso quella notte di novembre 1975 e la sua voce non ha smesso .

L’AUTO DI PASOLINI? RITROVATA SULLA TIBURTINA (Prima parte)

Tra le tante parti ancora non emerse sulla morte di Pasolini, una riguarda la sua auto. Una diversa dinamica che riguarda le ore immediatamente successive alla mattanza, che potrebbe riscrivere completamente l’indagine su quel massacro e che si lega a una dichiarazione rilasciata da Sergio Citti nel 2005 a Guido Calvi secondo cui l’auto di Pasolini sarebbe stata ritrovata abbandonata sulla Tiburtina1. Una verità fatta scivolare probabilmente via dalle carte del fascicolo relativo al processo a carico di Giuseppe Pelosi. E’ solo un verbale ma cambierebbe tutto.

A raccontarci una verità diversa è un nuovo testimone della vicenda cresciuto nel quartiere del Tiburtino assieme a quel gruppo di giovani chiamati più volte in causa nei dintorni del delitto: “Pino se lo so’ bevuto alla fontanella de piazza Gasparri… lo sapevano tutti nel quartiere, come tutti sapevano che quella notte con lui ci stavano i Borsellino e Johnny.”

Piero (nome di fantasia) non faceva parte del giro, di quelle bande sfilacciate di criminali che a Roma operavano ognuna per conto proprio senza intrusioni e senza collegamenti. Piero ha vissuto ai margini di quel mondo osservandolo per difendersi. Quella che racconta è una storia che non è mai stata così segreta come si è portati a immaginare, è piuttosto una storia conosciuta da un intero quartiere, di cui molti hanno saputo e nessuno ha parlato. Lui quei ragazzi li conosceva bene, fu lui stesso, racconta, ad aprire la porta del bagno in cui il padre dei due Borsellino (Franco e Giuseppe Borsellino ormai deceduti che furono fermati e poi rilasciati per mancanza di riscontri alle indagini dell’allora Carabiniere Renzo Sansone, nda), si impiccò alcuni mesi prima di quel 2 novembre del ’75. Arriccia il naso mentre lo racconta, quasi come a non voler vedere quell’immagine, poi va avanti.

All’Idroscalo, Pelosi arriva in macchina con Pasolini mentre Mastini (Giuseppe Mastini alias Johnny Lo Zingaro più volte chiamato in causa negli anni senza mai andare a fondo sul suo ruolo secondo quanto a noi risultato, nda) si trova nell’altra Alfa 2000 quella blu probabilmente guidata da Antonio Pinna, descritto nell’ambiente come un esponente della malavita romana e confidente di Pasolini, e i due Borsellino arrivano invece col Gilera. Già nei mesi immediatamente successivi al delitto la giornalista Oriana Fallaci, insieme al suo collaboratore Mauro Volterra, nella contro-inchiesta de “L’Europeo”2, avevano parlato di due motociclisti su un Gilera. Nei verbali emerge che l’indiscrezione sia arrivata dalla giornalista americana, allora a Roma, Kay Withers, attraverso il collega Robin Lustig3 della Reuter di Roma. Lustig (ora alla BBC) conferma via e-mail di aver riportato ciò che sapeva sul caso Pasolini unicamente da quanto riferitogli dalle forze dell’ordine, e certo il tempo passato – dice – non lo aiuta nel ricordo. Sarebbe legittimo dunque almeno pensare che gli inquirenti fossero fin dall’inizio sulle tracce di una motocicletta?

Dì, ma qui non si vedono più quelli che hanno la motocicletta? Chi ce l’ha la motocicletta?

«Vuoi dire la Gilera 124? Quella ce l’ha il Roscio.» 4

Piero ci racconta di chi è quella motocicletta, confermando quella stessa notizia dell’Europeo. La Gilera è del Roscio, il suo nome è Mimmo D’Innocenzo. Mimmo aveva impicci con la droga e frequentava la stessa bisca di Pelosi e gli altri.

“Gli presero la moto per qualche motivo, forse c’aveva un debito, non lo so bene e non so nemmeno da dove l’avesse presa, ma era la sua quella moto, gliela fecero ritrovare poi davanti a un fioraro sulla Tiburtina. Poi qualche anno dopo lo “suicidarono”, lo trovarono morto per overdose in una macchina sul Lungo Tevere”.

Non ricorda bene il mese o l’anno Piero, ha paura di accavallare le date, di dare informazioni sbagliate ma alcuni fatti li ricorda perfettamente e ricorda perfettamente che Mimmo non voleva più quella moto, perché era stata “impicciata” in qualcosa in cui non voleva entrare. Mimmo morì nel 1979, qualche anno più tardi forse perché, come Piero ipotizza avendolo conosciuto bene, sull’uso fatto della moto voleva saperne di più.

“Io li conoscevo perché abitavamo tutti lì, andavamo a impennare coi motorini insieme, facevamo qualche furtarello, ma non eravamo amici. Loro erano iscritti al partito monarchico, stavano in fissa col fascismo, io invece ero sempre stato di sinistra, ci siamo pure menati qualche volta con quelli di destra”.

Piero continua il racconto, mentre arrotola una sigaretta di tabacco senza filtro e ammette di averli anche invidiati un po’ quei ragazzi. Alla memoria gli tornano immagini come fotografie. “A volte li guardavo andare avanti e indietro con le vespe dai vetri della mia bottega e li invidiavo perché io stavo là a lavorare e loro scoattavano tutto il giorno, ma sono stato fortunato. Poi io c’avevo mia mamma che mi stava sempre dietro, non mi sono mai drogato. Le canne sì, quelle me le facevo ma non mi sono mai drogato…Mimmo invece sì”. Piero torna spesso a Mimmo nel suo racconto, quello è con buona probabilità il motivo per cui ha deciso di parlare.

Crimine e linguaggio media: US e Italia a confronto

pubblicato sul mensile Periodico Italiano mag del 28/10/12

di Simona Zecchi

auroramassacre

Secondo uno studio condotto in Svizzera nel 2010 dal terzetto giornalistico-scientifico: il direttore dell’ ”European Journalism Observatory”, osservatorio europeo del giornalismo, Stephan Russ-Mohl, dal ricercatore svizzero Colin Porlezza e dal professore di giornalismo statunitense Scott Maier e riportato interamente dal sito dell’Università Svizzera Italiana (http://www.usi.ch/print/progetto?id=292), i quotidiani del Bel Paese sarebbero più affidabili nei contenuti di quelli elvetici.

 Ti imbatti in queste statistiche e analisi, nonché altisonanti e piacevoli affermazioni, quando poi a luglio accadono eventi come la strage di Denver (Colorado). Un solo killer, armato e coperto da una maschera antigas, ha aperto il fuoco in un cinema ad Aurora, anonima periferia di Denver, uccidendo 12 persone (invece delle prime 14 dichiarate) e ferendone circa 50 (e non 70 come riportato in primis). Queste le primissime note rilasciate subito dopo il fatto, avvenuto il 20 luglio scorso, dal capo della polizia Daniel J. Oates, un nome storico nel parterre dell’anticrimine americano. Oates prima reporter nell’ “Atlantic City Press”, poi a capo del “NYC Police Department”: una perfetta sintesi per questo articolo e ancor più una storia tipicamente americana.

Una strage che sa di mala periferia (americana in questo caso) e perverse emulazioni: pare che il presunto killer, poi individuato come un giovane “colorato” di 24 anni (per via dei capelli rosso fumetto) stesse mimando le gesta di Bane, il super cattivo dell’ultimo capitolo della saga di “Batman”, conosciuto in Italia anche col nome di “Flagello”, personaggio creato dalla matita di “DC Comics” la nota serie di fumetti.

E la strage è avvenuta proprio durante la prima de “The Dark Night Rises” diretto dal grande regista introspettivo Christopher Nolan, cui poi comunque sono seguite le altre tappe del tour promozionale non senza falsi allarmi di attentati ed emulatori di sconclusionate gesta a successione.

La polizia ha subito fermato il sospetto killer, James Holmes, e ha escluso, dalle testimonianze raccolte, che a sparare ci fosse un secondo killer, anche se sin dall’inizio le dinamiche e le armi con cui Holmes è stato arrestato presso il parcheggio del cinema (nonché le sue prime dichiarazioni sull’ingente quantitativo di esplosivo presente nella sua abitazione) avevano fatto pensare agli stessi inquirenti che i complici potessero essere più di uno.

Gli spettatori non si sono subito accorti di quanto stava succedendo, sopraffatti dagli effetti speciali e dal volume alto che accompagnano spesso queste proiezioni. «Abbiamo sentito degli spari e un’esplosione, ma credevamo fosse il film, quando abbiamo visto che molte persone si alzavano e scappavano ci siamo alzati anche noi», aveva detto un testimone alla tv Usa “9News”.

Insomma: quando mito e realtà, finzione cinematografica e cruenta attualità si mescolano e chi si trova protagonista suo malgrado ne rimane bloccato; non come in uno spezzone o uno scatto immortalato ma nello “shooting” di un episodio vero che è per sempre.

Sul luogo della strage sono intervenuti anche gli agenti dell’Fbi, per valutare se l’episodio poteva essere codificato come un atto di terrorismo ma l’agenzia governativa, che ha poi la mossa finale decisiva, ha dichiarato che il terrorismo non c’entrava nulla. Da quel momento in poi l’occhio rapace dei media è rimasto tutto focalizzato sul vero protagonista: James Holmes.

Il quotidiano “La Repubblica”, secondo al “Corsera” in diffusione cartacea ma primo sull’on line, (fatto che sa perfettamente e ne approfitta), dedica alla strage sul sito uno speciale dietro l’altro; titoli, sottotitoli e cappelli erano tutti per lui, il killer: “Inferno in un multisala del sobborgo di Aurora. James Holmes, 24 anni, indossava una maschera antigas come il “cattivo” del film e ha usato armi comprate legalmente: le munizioni le aveva acquistate sul web. Tra le vittime anche bambini, undici dei feriti sono in condizioni critiche. La casa del giovane è imbottita di esplosivo, area evacuata e artificieri al lavoro. Obama “scioccato” ordina bandiere a mezz’asta fino al 25 luglio”

L’ “Huffington Post” americano il 20 luglio titolò il fatto così: ”James Holmes, Aurora Shooting Suspect, Purchased 6,000 Rounds Of Ammunition Online (ossia: James Holmes, sospettato della sparatoria di Aurora ha acquistato 6,000 serie di munizioni on-line)

E ancora il Corriere della Sera, il 23 luglio: ”Denver: trovato il computer del killer Lunedì prima udienza in tribunale”. Una contraddizione in termini nello stesso periodo visto che la prima udienza doveva ancora iniziare e già il corriere nazionale lo definiva un killer.

Lo stesso giorno e lo stesso fatto sul “The Guardian”: “Colorado shooting suspect James Holmes makes first appearance before judge” (ovvero: Il sospettato per la sparatoria in Colorado fa oggi la sua prima apparizione davanti al giudice) che ha proseguito come coerenza vuole anche nel testo quando vicino al nome o alla descrizione sempre apparica “l’uomo che si crede abbia ucciso 12 persone…”.

Insomma alleged, suspect, believed to be e poi tutti i dettagli del caso. L’inglese non è una lingua complessa ma è piena di sinonimi e sfumature per non doppiare “che pare brutto” esteticamente e non ingannare il lettore così come la verità dei fatti. Non che l’italiano ne sia sprovvisto, ma la caparbietà sul sensazionalismo e quindi la storia che il cane che morde l’uomo in sé non basti a vendere (“Quando un cane morde un uomo non fa notizia, perché capita spesso. Ma se un uomo morde un cane, quella è notizia” è una delle citazioni più note sul giornalismo apparsa la prima volta sul “New York Sun” a fine ‘800, la cui attribuzione però resta tutt’ora incerta), sembra avere sempre più la meglio su illustri e meno illustri cronisti e redattori dei fogli nazionali e locali. Si, forse ci caschiamo tutti e non raramente perché la crisi impone che il cane sia quello di una star almeno, e la star tassativamente di primo livello ma la differenza con i quotidiani e i giornalisti degli altri paesi si fa sentire e pesa.

E ancora, per quanto riguarda Holmes, mentre il 30 luglio nel corso del primo dibattimento è stato formalmente accusato di primo grado con ben 24 capi d’accusa, e mentre si è discusso sin dall’inizio se dargli o no la pena di morte in uno Stato dove non si applica da anni, il termine che lo ha associato nei media locali e nazionali è quello preciso di suspect.

Intanto mentre Holmes si toglie il “rosso Bane” dai capelli, viene discussa la nuova udienza (20 settembre) e il grande nodo sull’uso degli appunti che l’imputato spedì allo psichiatra prima del gesto assurdo viene sciolto con la decisione di non poterlo utilizzare come prova perché elemento di segretezza fra medico e paziente.

 Per tornare unicamente ai giornali nostrani e capire come il linguaggio dei media sul crimine in Italia sia sempre meno specifico ed esatto basta rivolgerci all’attentato di Brindisi. Attentato avvenuto a Brindisi il 19 maggio di un sabato scolastico col sapore già delle vacanze.

 E’ presto e i bus che fanno la spola dai paesi limitrofi per portare i ragazzi dei vari istituti superiori nelle loro classi si susseguono. Uno solo però, quello che parte da Mesagne (Brindisi) e porta con sé alcuni ragazzi della scuola superiore “Morvillo-Falcone” si ferma più di tutti. Sono le 7.50 e un’esplosione spezza la vita di una ragazza, Melissa Bassi, e ne ferisce altre 6 (anche qui le imprecisioni fioccavano già: si riportò di 2 morti iniziali, la seconda ragazza dopo qualche giorno, e 5 ferite gravemente). I riflettori rimangono accesi sulla città e le dinamiche dei fatti, mano a mano che le indagini si susseguono, con una frenesia al limite del parossismo. Tanto è vero che persino uno stimato e invidiabile giornalista come Sandro Rutolo collaboratore di Santoro in “Annozero” si lancia su Twitter in vere e proprie descrizioni e indicazioni dettagliate di un presunto sospetto, in realtà solo eventualmente informato sui fatti, in quel momento interrogato dalla procura. Quando però arriva la smentita sul suo coinvolgimento, la frittata era già stata fatta e la rabbia dei brindisini, così come il flash dell’infamia, implacabili avevano già creato il mostro. Il giornalista è stato convocato dall’Ordine professionale e un procedimento disciplinare è stato aperto nei suoi confronti, la cui entità è tuttora sconosciuta.

 Poi le indagini hanno fatto il loro corso e al momento in cui scriviamo il sospettato è tutt’ora il reo confesso Giovanni Vantaggiato, commerciante agiato di Copertino (Lecce), subito soprannominato il killer, il bomber (tanto per associarlo alle azioni di un folle isolato con intenti maniaci e omicida). Fino a pochi momenti prima il web e le edicole erano già un profluvio di analisi stragiste nazionali e internazionali, senza attendere lo svolgersi dei fatti e avere così più elementi per fare collegamenti maggiormente concreti. Intanto, mano a mano che l’attenzione sul fatto si diradava, nelle descrizioni degli eventi che caratterizzano tuttora le indagini e le poche rivelazioni, spesso emerge la volontà di farlo apparire come un folle a cui è scappata la mano, quasi a voler credere forzatamente alla sua tesi di tentato omicidio per reazione alla mala giustizia (secondo Vantaggiato la sentenza che ha riconosciuto nel 2008 la sua condizione di vittima per una truffa di oltre 350 mila euro non avrebbe reso la giustizia meritata e questo avrebbe scatenato la sua reazione ai danni di persone e cose davanti all’istituto scolastico).

Intanto, mentre ne parliamo e altri elementi oscuri emergono fuorché il movente, rimane l’accusa di strage con finalità terroristica e il sospetto che Vantaggiato abbia agito con altri complici, come indica la richiesta d’arresto della Procura che coordina le indagini. Inoltre, nel dibattimento verrà anche discusso il suo coinvolgimento in un altro attentato di cui ha anche ammesso la responsabilità, avvenuto nel 2008, nei confronti di Cosimo Parato suo presunto socio in affari. Ma questa è un’altra storia e gli elementi sono ancora poco consistenti per trarne concretezza. L’ultimo interrogatorio svoltosi in questi giorni dal titolare delle indagini, il pm Milto De Nozza, vede arroccata ancora la difesa del sospettato, rappresentata dal legale Franco Orlando, sulla motivazione di “atto dimostrativo”.

Altro esempio attuale e interno alla penisola su come i fatti possono essere anche involontariamente o meno manipolati, se al centro di tutto non viene posto il lettore e meglio ancora il cittadino, è stato l’arresto in custodia cautelare del senatore, ex Margherita, Luigi Lusi. L’ex tesoriere della Margherita (attualmente tradotto ai domiciliari presso un convento) è accusato, insieme ad altre persone (tra cui la moglie), di appropriazione indebita di oltre 25 milioni di fondi del fu partito. Nei giorni successivi l’arresto, la Cassazione aveva rinviato a un’ulteriore valutazione la condizione di custodia cautelare cui era sottoposto il parlamentare.

Fatto questo che avrebbe determinato la probabile scarcerazione fino al processo perché sarebbero venuti meno il pericolo di fuga e l’inquinamento delle prove.

Il titolo che maggiormente ha furoreggiato in quei giorni, non solo nel quotidiano vicino spesso alle posizioni del PD come “Repubblica”, ma in tutti o quasi i quotidiani anche di opposta appartenenza, era appunto la non validità dell’arresto, quando invece Lusi doveva ancora rimanere in carcere perché mancava la completezza della valutazione nel merito. Soprattutto però in un momento così delicato per la giustizia, e le verità di Stato che mano a mano emergono su fatti che hanno lacerato l’Italia da oltre vent’anni (la trattativa Stato- mafia, il processo a Piazza Fontana, la strage di Brescia ecc., ecc.) i titoli prendono il posto del contesto e del fatto in sé e la gravità di quanto è stato commesso, l’unica a essere valutata prossimamente. La sottrazione indebita di soldi appartenenti agli elettori, infatti, è stata messa in secondo piano, quasi a volerla cancellare, quasi a far finta che l’errore non stia nel reato in sé (che c’è stato: è un fatto), ma nell’averlo giudicato. Un risultato non casuale, proprio se guardiamo alle reazioni scatenate da inchieste scottanti che coinvolgono uomini delle istituzioni e funzionari che allo Stato rispondono.

La Margherita, intanto, ha nei giorni scorsi consegnato al Ministero dell’Economia e delle Finanze, Vittorio Grilli, 5 milioni di “avanzi patrimoniali” del partito.

E’ solo un esempio tra i fatti di cronaca più recenti ma serve a indicare quanto il focus sui fatti resti spesso in difetto.

Su tutto, ad esempio di quanto fede ai fatti e passione del racconto possano coesistere e attirare l’attenzione dei lettori, rimane l’incipit di un articolo che la giornalista messicana Alma Guillermoprieto pubblicò nel 1982 sul “Washington Post”: “Diverse centinaia di civili di questo villaggio e dei dintorni, compresi donne e bambini, a dicembre sono stati prelevati dalle loro case e uccisi da truppe dell’esercito salvadoregno, durante un’offensiva contro la guerriglia di sinistra, stando alla testimonianza dei sopravvissuti che dicono di aver assistito ai presunti massacri” (dalla raccolta di articoli presenti nel libro “Cronache dal Continente che non c’è” – La Nuova Frontiera, 2011). La Guillermoprieto arrivò a Mexico City un mese dopo quel massacro rischiando, insieme al collega Raymond Bonner del “New York Times”, la vita per il suo lavoro che per fortuna gli costò invece, dall’allora amministrazione americana retta da Ronald Reagan, “solo” l’accusa di attività propagandistica.

 Il risultato dello studio scientifico-giornalistico, rimasto autorevole seppure non recentissimo con il quale abbiamo aperto questo articolo, ora, potrà avere forse un’aria meno altisonante e più uno stimolo a fare bene il proprio lavoro sempre.

Idroscalo di Ostia: la rabbia degli sfollati

Servizio ripresa e articolo pubblicato su Fanpage.it  di Simona Zecchi, Martina Di Matteo, Peppe Pace

Nel febbraio di tre anni fa, le ruspe del comune di Roma entrarono all’Idroscalo, dove da sessant’anni vivevano 500 famiglie. Nel giro di due ore e senza alcun preavviso, diverse famiglie furono allontanate dalle proprie case che vennero immediatamente demolite. Da tre anni il comune spende circa 3000 euro al mese per ognuna delle famiglie sgomberate e trasferite in un residence. Lo sgombero e la demolizione costarono alle casse comunali circa 6 milioni di euro. Al posto delle “baracche” demolite, il nulla.

Era l’alba del 23 febbraio del 2010 quando 35 famiglie, residenti nella zona dell’Idroscalo di Ostia, vennero allontanate dalle proprie case con un’ordinanza della protezione civile a causa di un pericolo di esondazione. È Paula De Jesus, urbanista a supporto tecnico della Comunità Foce Tevere, che si batte da anni per fare in modo che la riqualifica dell’Idroscalo avvenga in modo che i residenti mantengano le proprie abitazioni, a spiegarci che l’ordinanza della Protezione civile è da considerarsi illegittima: quel 23 febbraio non ci fu nessuna esondazione e, anzi, le condizioni meteorologiche quel giorno non lasciavano presagire nulla di preoccupante. In poco più di due ore, e senza nessun preavviso (nonostante le ordinanze ricevute dai cittadini quel giorno fossero datate al 17 febbraio), 35 famiglie furono costrette a raccogliere i propri effetti personali tentando, per quanto possibile, di salvare il mobilio (sistemato alla meglio in alcuni container pagati dal Comune di Roma), prima di essere trasferiti al residence “Borgo del Poggio” in via di Fioranello, nei pressi di via Ardeatina. Le case furono abbattute quel giorno stesso, in fretta, per evitare che le persone ne riprendessero possesso. Da quel giorno il Comune di Roma non è mai più intervenuto sul luogo. Una manovra, questa, costata al Comune circa 6 milioni di euro, per non parlare della somma, stimata tra i 2000 e i 3000 euro al mese a famiglia, che da ormai quasi due anni serve a coprire le spese del residence. Nel frattempo, il destino di tutti gli altri abitanti della zona sembra incerto. Infatti, secondo il progetto di riqualifica del territorio, entro il 2013 dovrebbero essere abbattute tutte le altre “baracche” per dar luogo alla costruzione di un Parco Fluviale. A rendere la situazione ancora più problematica vi è inoltre il fatto che nessuna delle famiglie residenti all’Idroscalo, tantomeno le 35 residenti al Borgo del Poggio, compare in alcuna delle liste di assegnazione per alloggi popolari.
La Comunità Foce Tevere, spiega la portavoce Franca Vannini, continua a battersi per una riqualifica del territorio che preveda la creazione di un piccolo borgo dell’Idroscalo, che permetta non solo alle persone di mantenere le proprie case ma che miri anche conservare l’identità del quartiere.

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Trattativa Stato-Mafia. Barillaro e D’Ambrosio: due morti diverse per i media

di Simona Zecchi pubblicato su Notte Criminale il 27/07/12

 

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Namibia, 24 luglio 2012: muore il giudiceMichele Barillaro mentre era alla guida di una jeep scontratasi contro un camion.

Roma, 26 Luglio 2012: muore per infarto Loris D’Ambrosio, il consigliere di Giorgio Napolitano a cui aveva telefonato Nicola Mancino per la questione della trattativa Stato-Mafia.
Doveva deporre anche all’Antimafia D’Ambrosio, dopo essere stato sentito prima della chiusura dell’inchiesta, dai PM di Palermo.
Il magistrato Barillaro, nato a Reggio Calabria nel 1967, svolgeva la funzione di Gip del Tribunale di Firenze. Muore nello scontro anche il suo amico avvocato Roberto Concellini.
Fino a poco tempo prima del tragico fatto il magistrato, prestato al capoluogo toscano dopo il suo impegno al processo Borsellino Bis, viveva sotto scorta. Aveva partecipato infatti alla redazione della sentenza. Recentemente aveva subito nuove minacce. Aveva partecipato, inoltre, ai processi contro Totò Riina e all’attentato a Mondello sull’Addaura nel 1989 contro Giovanni Falcone, di cui è stato suo stretto collaboratore.

Il consigliere giuridico Loris D’ambrosio, anche lui ex collaboratore di Falcone, per giorni al centro di polemiche sulle intercettazioni che lo vedevano protagonista come mediatore fra Napolitano e Mancino, il quale premeva insistemente, secondo quanto è possibile evincere dai dialoghi riportati, per evitare il suo coinvolgimento nell’inchiesta sulla trattativa.

E’ morto nel suo studio di Roma, zona Parioli. La morte sarebbe avvenuta per cause naturali. Cause talmente certe da non ritenere, è notizia di poco fa, necessarie le analisi per l’autopsia.
La morte del Gip Barillaro, invece, è passata inosservata dai media nazionali come il vento contrario a quello caldo che fino a poco tempo fa ha scosso invece le temperature nostrane; le stesse temperature bollenti che hanno caratterizzato il ciclone sulla trattativa: tra depistaggi, sentenze da rifare e nuove inchieste. La sua morte è stata riportata solo da qualche media locale, come “Il Quotidiano della Calabria, “Il Corriere della Calabria” e anche dalla edizione toscana di Repubblica. Una morte in secondo piano evidemente senza scalpore.
Altro  vento, invece, quello che porterà fuori dall’Italia il giudice Antonio Ingroia che insieme agli altri giudici di Palermo, e in alcune fasi alle altre procure di Caltanissetta e Firenze, hanno portato avanti per anni infiniti l’inchiesta sulla trattativa.
Il PM Ingroia che nei giorni scorsi ha sentito come persona informata dei fatti Marina Berlusconi sul processo a Dell’Utri per estorsione, ha accettato l’incarico annuale propostogli dall’Onu in Guatemala. Una decisione presa tra le polemiche e gli attacchi, nonché qualche titubanza accettata infine dal CSM (23 a favore, 4 contrari, 3 astensioni).

 

Milano ’93: la strage dei buchi neri

Immagini scattate dai Vigili del Fuoco il 28 luglio 1993 (gentile cortesia del Padiglione Arte Contemporanea)

In occasione della commemorazione della strage di via Palestro 1993, una visita guidata speciale alla mostra di Luisa Lambri ho ripercorso con il curatore Diego Sileo le fasi dell’attentato e le inchieste che ne sono seguite.

Le opere fotografiche di Luisa Lambri, che si relazionano con le qualità uniche dell’architettura disegnata da Ignazio Gardella per la quale la mostra è stata appositamente progettata, saranno il punto di partenza per raccontare anche un episodio doloroso della storia del Padiglione, un trauma che segnò la storia di Milano e dell’intero paese.

Tre boati che squarciano l’Italia nella notte fra il 27 e il 28 luglio 1993, due a Roma mentre uno colpisce Milano: tre boati e una sola verità, rimasta incompleta, monca. Alcuni autori, altrettanti complici, alcune modalità e soprattutto i mandanti, troppo ancora resta oscuro a 29 anni dalla strage di via Palestro a Milano. Mese, quello della bomba al Padiglione d’Arte Contemporanea (PAC), funestato, tra l’altro, dal culmine raggiunto dall’inchiesta Mani Pulite e dal suicidio, 4 giorni prima, di Raoul Gardini che doveva rendere testimonianza all’ex pm Antonio Di Pietro.

La strage di via Palestro, in particolare, uno dei sette attentati compiuti durante il biennio 1992–1993, e avvenuto il 27 luglio di 28 anni fa, è uno di quei giorni in cui i buchi neri faticano a riempirsi. Cinque morti, dodici feriti: il veicolo è esploso uccidendo uno dei Vigili urbani (Alessandro Ferrari), tre Vigili del Fuoco (Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno) e un cittadino extracomunitario (Driss Moussafir) che si trovava sul luogo.L’esplosione ha danneggiato il muro esterno del PAC e il sistema di illuminazione pubblica dell’area. Persino i vetri delle abitazioni a circa 300 metri di distanza andranno in frantumi. Poi anche la condotta del gas, posta al livello sotterraneo, prenderà fuoco. E all’alba del mattino dopo esploderà anche una sacca di gas formatasi proprio sotto il PAC, distruggendone una gran parte. La seconda esplosione lesionò infine parzialmente l’adiacente Galleria d’Arte Moderna.

Sette attentati che hanno funestato quel biennio, dicevamo: le stragi di Falcone e Borsellino; l’attentato di via Fauro a Roma, dove obiettivo era il giornalista Maurizio Costanzo, rimasto illeso; le autobombe di Firenze in via dei Georgofili e, ancora, le chiese di Roma; infine, in mezzo, Milano, città già ferita con la madre delle stragi, quella di Piazza Fontana. E poi un ennesimo, quello tentato il 31 ottobre ’93 sempre a Roma presso lo stadio Olimpico. Un attentato non riuscito, questo, che doveva fare strage dei carabinieri. Le indagini sugli attentati, ma anche su quello mancato, confluirono poi presso la Procura della Repubblica di Firenze nel dicembre del 1994, in quanto luogo, Firenze, ove è accaduto il fatto più grave (secondo quanto stabilisce l’articolo 16 del codice penale): una famiglia intera di 4 persone, uno studente e 41 feriti.

Ma quel 27 luglio a Milano durerà molto di più che il tempo dell’esplosione stessa avvenuta alle 23.14; più dell’ora scarsa che rimaneva per passare a un giorno nuovo. I momenti paralleli che segnano il racconto dell’eccidio di via Palestro sono quelli che restano infatti più all’ombra degli altri (rispetto a esempio al momento dell’esplosione, o quando i vigili del fuoco si avvicinano all’autobomba che farà di loro carne viva, oppure, ancora, il momento dell’intervento dei loro colleghi per spegnere le fiamme e cercare di “salvare il salvabile”; persino la foto del motore dell’autobomba sbalzata via e poi immortalata dagli scatti dei pompieri). Uno dei sopravvissuti, Massimo Salsano, che ha iniziato il suo servizio presso i Vigili del fuoco proprio in quell’anno, nell’unità che poi è intervenuta, ci riferisce che le priorità in quei momenti senza tempo sono due: salvare le persone e mettere in sicuro il luogo, e cercare di non spazzare via elementi utili alle indagini. Ma quest’ultima cosa non ha certo la priorità sulla prima e il tempo per prendere decisioni è minimo. Oggi esiste il Nucleo investigativo anti-incendi (NIAT), allora nel ’93 no, ma le attenzioni, certo meno scientifiche, esistevano lo stesso. Salsano, quella sera in servizio e oggi in pensione, e il cui corpo è stato sbalzato di circa 70 metri mentre veniva raggiunto dal motore dell’autobomba (la quale non sbalzerà di 300 metri come invece spesso si ricostruisce: su questo Salsano è categorico) è stato riconosciuto insieme agli altri una “vittima del terrorismo”. È lui che insieme ai colleghi ha visto subito il fumo bianco fuoriuscire dall’auto: quello prodotto dalle micce catramate che lo emanano, come recita il documento della sentenza sulla “valutazione delle prove”, e che prendendo fuoco emette l’odore caratteristico del bitume bruciato.

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Il riconoscimento dato alle vittime di terrorismo (decedute o ferite) per questa strage (legge 204/2006) già di per sé definisce quel fatto: più terrorismo che mafia. La strategia di Cosa Nostra in tal senso comincia a cambiare già alcuni anni addietro con l’omicidio di Rocco Chinnici ucciso da un’autobomba il 29 luglio 1983. Anche se le stragi del decennio successivo hanno qualcosa di diverso oltre alla mafia, qualcosa di altro, di estraneo. Su questo aspetto, le indagini del più recente biennio, vanno comunque lette insieme ai processi da poco celebrati e quelli in corso fra Caltanissetta, Palermo e Reggio Calabria.

Esistono però rispetto ai fatti elencati prima, sulla strage di Milano, tutta una serie di eventi piccoli e grandi che
li precedono, che sono a essi contemporanei e che, infine, li succedono, i quali si fanno fatica a inquadrare per bene. E a oggi non sono riusciti a inquadrarli nemmeno inquirenti e magistratura. Sono spesso però momenti fondamentali per la ricostruzione tutta di quanto accaduto. E proprio per questo restano ancora parziali o completamente oscuri.

Il buco nero per antonomasia di quel giorno a Milano, a esempio, resta, a fronte di un quadro quasi completo, il percorso che fa il tritolo all’interno dell’autobomba scelta per l’esplosione di via Palestro. Nessuno sa come è arrivato lì e chi, dei mafiosi coinvolti nel processo, sia stato. O se sia stato qualcuno di esterno, forse qualcuno che con sicurezza anche di sera non poteva essere individuato. Sicuramente nessuno di cui un collaboratore ha potuto riferire con certezza a oggi. Dei luoghi usati per la logistica invece ormai si sa tutto (un pollaio in provincia di Varese e un’abitazione di Arluno). Ma chi portò in via Palestro la Fiat Uno imbottita di esplosivo, e chi guidò l’auto di appoggio del gruppo di fuoco mafioso che operò a Milano, poche ore prima che a Roma altri uomini della stessa struttura facessero esplodere autobombe contro le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, di tutto questo ancora nulla si conosce. Solo due anni fa per questa parte di azione è stato assolto Filippo Marcello Tutino, inizialmente accusato dal pentito che più di tutti su quelle stragi ha dato il suo contributo, Gaspare Spatuzza. Tutino è stato assolto nel 2018, in via definitiva, dall’imputazione di essere stato il presunto basista della strage. Stando alle indagini della Dda milanese era accusato di aver partecipato al furto dell’auto che poi saltò in aria e di aver fornito supporto logistico agli esecutori materiali.

Una strage che ha anche trascinato con sé due morti collaterali: quella di un affittacamere romano, Alfredo Bizzoni, il cui ruolo è stato fondamentale per facilitare il collegamento Roma-Milano; e quella di un criminale calabrese, Antonio Scarano, considerato una sorta di jolly degli stragisti vicino a boss come Matteo Messina Denaro, l’uomo di punta quest’ultimo – insieme a Giuseppe Graviano – nell’organizzazione di quelle stragi. Bizzoni fornì tre appartamenti a Roma al commando di Gaspare Spatuzza e se la cavò con una condanna a un anno e 10 mesi. Morto suicida, ma in circostanze strane, nel 2015, a Bizzoni due anni prima gli avevano confiscati beni per 15 milioni di euro e di Scarano, morto d’infarto nel 1999 mentre era sotto protezione, riferì i propri dubbi al riguardo sottolineando come lo stesso giorno entrambi dovevano effettuare il confronto in tribunale. Bizzoni sapeva qualcosa sulla trattativa Stato-mafia.

Ma a parlare di «sequenze parallele» è stato proprio il magistrato che prima di tutti indagò sulle stragi e che istruì una parte di inchiesta sui soli mandanti, la quale a oggi è seguita da altri pm come Luca Tescaroli. Filone che si apre e si chiude spesso nel silenzio generale. Buona parte di quello che poi diverrà a Palermo il famoso processo trattativa Stato-mafia, il cui dibattimento di secondo grado, mentre scriviamo, è quasi agli sgoccioli, lo dobbiamo al pm Gabriele Chelazzi morto nel bel mezzo delle indagini il 17 aprile 2003. Pronunciò queste parole Chelazzi, durante un’audizione alla Commissione antimafia del 2002 (dove non gli fu permesso però successivamente di completare il suo intervento): «Ci sono le sequenze parallele che riguardano vicende interne di cosa nostra, dinamiche di supremazia, eliminazioni, anche nel senso fisico del termine, di capi famiglia e di capi mandamento». Non solo, tra il 2002– 2003, poi, «il magistrato aveva raccolto una documentazione straordinaria e ricomposto un quadro impressionante su ciò che era accaduto con due Governi tecnici: nelle ultime settimane dell’esecutivo Amato e, soprattutto, lungo tutta la durata del Governo Ciampi», si legge anche nella relazione finale di un’altra Commissione quella presieduta da Beppe Pisanu nel 2013.

E se dobbiamo ricordare quei momenti paralleli rimasti inesplorati o poco indagati, o comunque senza una spiegazione, a esempio non possiamo non parlare della presenza di una donna bionda (il cui identikit somiglia allo stesso fatto per la strage di via Fauro a Roma), allora giovane e il cui ruolo in questi ultimi periodi le inchieste televisive che si sono occupate delle stragi hanno fatto riemergere. La prima volta che il suo identikit è comparso fu sul quotidiano l’Unità a soli due giorni dalla strage, il 29 luglio del 1993. Su questa donna la Procura di Firenze sta ancora indagando. Più volte associata, la donna, a un altro personaggio, ormai deceduto, cosiddetto Faccia da mostro, alias il poliziotto Giovanni Aiello, che secondo attività inquirenti era inserito in una struttura composta da servizi segreti, cosiddetti deviati. L’uomo, morto nel 2017 come un semplice pescatore ma le cui intercettazioni nel tempo hanno riferito ben altro, sarebbe intervenuto su molti fatti oscuri di mafia. La donna si è più volte indicata come appartenente alla struttura militare segreta Gladio, nota anche come Stay Behind operativa in modo occulto tra gli anni del secondo dopoguerra e, almeno ufficialmente, il 1990.Anche a via Fauro, a Roma, dove hanno rischiato la vita Costanzo e sua moglie, inizialmente un testimone disse di aver visto una giovane donna parlare con un uomo che era seduto al volante di quella che poi si rivelò l’autobomba, quando questa era già parcheggiata in via Fauro, alcune ore prima dell’esplosione. A Milano, invece, la donna sarebbe stata vista da altri testimoni verso le 22.30 di martedì 27 luglio accanto all’auto che poi salterà in aria: capelli lunghi, carnagione chiara, corporatura snella, lineamenti regolari, sui 27 anni. Mezz’ora dopo, 15 minuti prima dell’esplosione, una coppia di giovani passanti segnalerà ad una pattuglia di vigili urbani che, da quell’auto, parcheggiata davanti alla Villa Reale, usciva del fumo. I due si sono quindi allontanati, mentre i vigili hanno chiamato i pompieri. Di quei testimoni si è persa traccia.Di una donna, ma mora, poi si è anche eseguito un fotofit per la strage di Firenze, forse la stessa con una parrucca. Forse. Solo della bionda si è fino a oggi azzardata un’identità ma su di lei era già stata aperta un’indagine poi archiviata. L’ennesimo segreto (non mistero) di queste stragi.

Bionda Jpeg

Dentro le carte di questa storia di bombe e mafia è finito come indagato, per un tratto, anche l’ex terrorista nero Franco Freda, lo stesso coinvolto nella strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 avvenuta sempre a Milano.A riferirlo un detenuto che parlò ai magistrati di una confidenza fattagli in carcere dall’ideologo della (de)stabilizzazione. Freda era già stato arrestato nel 1993 con l’accusa di ricostituzione del disciolto partito fascista ed incitamento alla discriminazione razziale, all’odio e alla violenza. Per Pomarici c’era dunque anche la possibilità di una pista nera da seguire per le stragi “in continente” (indagò anche su un altro fedele di Freda, Cesare Ferri). Pista poi archiviata.

Non è la prima volta che si accostano matrici politiche alle stragi di mafia visto che proprio Giovanni Falcone era fermamente convinto della responsabilità penale nell’omicidio di Piersanti Mattarella, avvenuto nel 1980, dell’ex terrorista dei Nar Valerio Fioravanti di cui aveva chiesto l’arresto. Convinzione che proprio di recente, in un documento desecretato dall’attuale Commissione Antimafia, emerge chiaramente e senza ambiguità da parte dello stesso Falcone che nell’audizione, ora disponibile a tutti, indica anche la possibilità di mandanti esterni, oltre a una parte della cupola mafiosa, per l’omicidio del fratello del nostro Presidente della Repubblica. E visto anche il ruolo svolto da un membro di Cosa Nostra a Capaci, Pietro Rampulla, esperto di esplosivi ma proveniente da Ordine Nuovo, l’organizzazione terroristica degli anni ’70 che a Padova e nel Veneto in generale aveva proprio come “dirigente” Freda. Nome questo, di Pietro Rampulla, che anche spunta nel 1993.

A definire il perimetro e l’obiettivo di queste stragi tra Firenze, Milano e Roma è sempre però il pm Chelazzi che, pochi giorni prima di morire di infarto, in un colloquio poco noto all’opinione pubblica con il generale del Ros Mario Mori dell’11 aprile 2003, sentito come persona informata sui fatti, cerca di capire, leggendo dall’agenda personale che l’ufficiale aveva messo a disposizione degli inquirenti, se alcune informazioni lì indicate dagli appunti del Generale potevano riuscire a fare luce su quei «pezzi mancanti» della strage. Domande sulla sua posizione riguardo al 41 bis (anche oggetto di valutazione del processo trattativa), su alcune sue conoscenze (in particolare un giornalista che aveva avuto, lui solo, il placet da Riina per essere intervistato, e che Mori conosceva bene). Ma quello che perimetra Chelazzi durante quel colloquio è fondamentale e allo stesso tempo, in parte, nuovo anche rispetto a quanto da sempre si scrive e afferma. Per quanto riguarda Roma e Firenze – dice Chelazzi – si ha la chiara intenzione di colpire i monumenti e la Chiesa: messaggio diretto alle gerarchie ecclesiastiche, inerti secondo i riscontri emersi, di fronte alle “dure condizioni dei mafiosi”; invece per quanto riguarda Milano, e qui sta la particolarità di questa analisi, si è inteso colpire simbolicamente la stampa, non l’arte ma l’informazione. Questa motivazione viene anche spiegata dal magistrato dal fatto che secondo i collaboratori e i complici della strage l’obiettivo vero non era il PAC quella sera. C’è stato un errore di 200-300 metri. E a quella distanza in effetti vicino a via Palestro, in via Cavour si trova il Palazzo della Stampa, passaggio tra i due edifici percorribile a piedi in circa 4 minuti. D’altronde, come sempre sottolinea Chelazzi in questo interrogatorio dove Mori è poco loquace, “questa storia inizia con un giornalista”: ossia il 14 maggio del ’93 con l’attentato a Costanzo che in quei giorni era molto impegnato contro la mafia nelle sue trasmissioni.

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Se il PAC è stato frutto di un obiettivo mancato, e se la distruzione di gran parte della struttura è avvenuto “per sbaglio”, se quelle morti sono avvenute per “sbaglio” (per inceppamento dell’esplosivo durante l’avvio della carica e quindi ritardo nell’esplosione), ma raggiungendo ugualmente l’obiettivo contro lo Stato, un museo di particolare visibilità già allora, il sapore che resta in bocca è ancora più amaro, il colore che esce fuori dal quadro ancora più torbido. E quei buchi neri è sempre più urgente riempirli, anche prima del prossimo anniversario: chi sono gli esterni della strage e delle stragi, chi i mandanti o i complici?

Simona Zecchi

simozecchi@gmail.com

In uscita dal 5 novembre 2020 il mio nuovo libro d’inchiesta

L’omicidio Mattei e l’«Appunto 21»: due piste monche (estratto da “Massacro di un Poeta”)

E’ solo un estratto di un capitolo denso di fatti e analisi. In questo primo paragrafo ripercorro la genesi di “Petrolio” nelle intenzioni di Pier Paolo Pasolini, nei successivi spiego perché poi la chiave dell’Appunto 21 legata alla morte di Enrico Mattei è una chiave monca, che non apre la porta dove si cela il movente vero.

Le pagine mancanti

Negli ultimi cinque anni di indagine, ovvero dal 2010 al maggio 2015, si è fatto spesso riferimento a Petrolio, l’ultima opera, incompiuta, di Pier Paolo Pasolini, la cui stesura ebbe inizio nella primavera del 1972. Una «presenza» che ha viaggiato in parallelo, senza mai incontrarsi concretamente, con l’inchiesta sulla morte del poeta. Un corpus «ingombrante» verso cui personaggi della politica, dell’industria, testimoni e intellettuali hanno via via mostrato il loro interesse appropriandosi di questo o quell’elemento. Il vocio che si è raccolto intorno ad essa ha smorzato però alcune verità. La Procura di Roma, infatti, non si è mai addentrata nelle pagine di quel testo alla ricerca di elementi che permettessero agli investigatori di andare oltre il movente sessuale ampiamente smontato nel presente libro. Un magistrato di un’altra procura lo ha fatto, vedremo come. 

Petrolio o Vas (titolo poi scartato dall’autore) è un vero e proprio documento, come lo è La Divina Mimesis e, sotto altra forma, il film Salò. Tutte e tre le opere sono percorse dallo schema dei gironi infernali danteschi, trasposti in un contesto contemporaneo, sul quale il poeta affonda le sue critiche taglienti e percorre la sua personale indagine. Lo stile usato in Petrolio è quello «che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia: rari sono i passi che si possono chiamare [decisamente] narrativi», come scrive Pasolini stesso nella lettera ad Alberto Moravia mai spedita e apposta in calce all’opera. Una sorta di superamento della forma romanzo, la quale, secondo il poeta, non è più sufficiente a far comprendere la verità dei fatti al lettore: 

“Se io dessi corpo a ciò che qui è solo potenziale, e cioè inventassi la scrittura necessaria a fare di questa storia un oggetto, una macchina narrativa che funziona da sola nell’immaginazione del lettore, dovrei per forza accettare quella convenzionalità che è in fondo giuoco. Non ho voglia più di giocare”.

All’amico e scrittore Paolo Volponi, Pasolini riferisce: 

“Deve essere un lungo romanzo, di almeno duemila pagine. S’intitolerà Petrolio. Ci sono tutti i problemi di questi venti anni della nostra vita italiana politica, amministrativa, della crisi della nostra repubblica: con il petrolio sullo sfondo come grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso neocapitalismo”.

Lo scrittore corsaro, dunque, non ha più voglia di «giocare». È un cambio di passo il suo: linguistico, stilistico e di forma. Vuole confrontarsi con la realtà utilizzando il giornalismo investigativo (mediante l’uso incrociato delle fonti e il loro collegamento) pur non rinunciando alla sua anima da letterato.

Durante la prima presentazione del libro nel 1992, il filologo Aurelio Roncaglia motiva così la lunga attesa per la pubblicazione:

“Abbiamo atteso tanto prima di tutto per i temi scottanti, sia dal punto di vista politico che erotico, che Pasolini tratta; in secondo luogo perché un’opera di una tale incompiutezza poteva anche nuocere all’autore. Ma non potevamo censurarlo. Anche Piero Gelli, direttore editoriale di Einaudi, ha ammesso di aver avuto qualche perplessità trattandosi di un’opera scomoda.”

Cinquecentoventidue pagine o veline (il tipo di carta utilizzata da Pasolini), per lo più dattiloscritte, invece delle duemila programmate che avrebbero dovuto raccogliere l’intera visione pasoliniana del potere.

Il 26 dicembre del 1974, tuttavia, come riferisce anche Roncaglia nella nota filologica all’opera, Pasolini si esprime in modo piuttosto preciso in merito al numero delle pagine:

“Nulla è quanto ho fatto da quando sono nato, in confronto all’opera gigantesca che sto portando avanti: un grosso Romanzo di 2000 pagine. Sono arrivato a pagina 600, e non le dico di più per non compromettermi”.

Il 10 gennaio 1975, sulla Stampa, il poeta ripete la stessa cifra al giornalista Lorenzo Mondo: «Seicento pagine abbozzate sulle duemila definitive». È la conferma della mancanza o addirittura della scomparsa di circa settantotto pagine (600-522) del dattiloscritto, quantomeno stando agli elementi certi a disposizione. Il numero indicato dallo scrittore è così preciso che la laconica spiegazione, nella stessa nota filologica di Roncaglia, secondo cui la cifra annunciata da Pasolini era un arrotondamento per eccesso, resta insufficiente.

Da Pasolini Massacro di un Poeta (Ponte alle Grazie 2015) allrights reserved

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Il “caso Moro”, Sciascia, Mattarella e la Sicilia

di Simona Zecchi

Scriveva Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera nel 1982: «Si è parlato  – e molti che non ne hanno parlato ci hanno creduto – della ‘geometrica’ perfezione di certe operazioni delle Brigate Rosse: e si è poi visto  di che pasta sono fatti i brigatisti e come la loro efficienza venisse dall’altrui inefficienza. Arriveremo alla stessa constatazione – almeno lo spero – anche con la mafia.»

Già altrove lo scrittore siciliano era ricorso a rappresentare le due ‘forze’  – terrorismo e mafia –  come motrici entrambe degli omicidi Mattarella (Piersanti, ammazzato il 6 gennaio 1980) e Reina (Michele, ammazzato il 9 marzo 1979). Scriveva in particolare il 7 gennaio del 1980 sempre sul Corriere:«Io sono stato tra i pochissimi a credere che Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, fosse stato assassinato da terroristi. Terroristi magari un pò sui generis, come qui ogni cosa; ma terroristi. […] Oggi di fronte all’assassinio del presidente della Regione Mattarella, quella mia ipotesi, che quasi mi ero convinto ad abbandonare, mi pare che torni a essere valida.» Giovanni Falcone, infatti, titolare della prima istruttoria sull’omicidio di Piersanti Mattarella aveva sin da subito indirizzato le indagini verso una pista nera per ciò che riguardava gli assassini materiali di cui chiese l’arresto nel 1986. Quella istruttoria culminò in una requisitoria depositata nel 1991 che poi non ebbe conferme giudiziarie ma che proprio recentemente ha di nuovo fatto capolino. Mattarella ha rappresentato in terra siciliana, per ciò che riguarda il compromesso storico fra PCI e DC, quello che Aldo Moro (con un percorso iniziato nel 1969 attraverso una sua “strategia dell’attenzione” verso il partito comunista italiano) è stato a livello nazionale, con tutte le specificità e le differenze che certo li caratterizzavano e che caratterizzavano le “due terre”: la Sicilia spesso per anni un mondo a parte, e il resto d’Italia. Una differenza che anche  si inserisce nella questione del compromesso in sé a livello nazionale. Chi si è opposto a logiche criminali come Mattarella e Reina si era anche opposto a un sistema di potere più complesso e ampio. Nel caso di Mattarella parliamo -secondo quanto emerse allora e permane come sospetto per il momento oggi – di terrorismo nero oltre all’intervento di Cosa Nostra. Per quanto riguarda il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro – strage degli agenti annessa-, l’evento spartiacque per gli equilibri nazionali indicativi per Moro di un cambiamento nel Paese al quale dare inizio, si è trattato di terrorismo rosso. Il colore politico, è ormai giunto il momento di dichiararlo con coraggio, cambia soltanto in funzione di dinamiche ma non di resa, di risultati.

Cambiare approccio per ricostruire i cinquantacinque giorni del Caso Moro nella inchiesta da me condotta e culminata nel libro, “La Criminalità servente nel Caso Moro” ha significato certo attraversare quaranta anni di storia politico-criminale e di contesti politici nazionali e internazionali, ma non da ultimo ha inoltre significato raccogliere i fatti che conducevano verso quel filone, esaminarli in controluce ed esporli tutti in fila come se posti su un tavolo immaginario (anche se in realtà fisicamente è avvenuto proprio così), certo verificandoli. Lavorare su temi così complessi non può prescindere dall’analisi dei fatti e dei contesti insieme. Concentrarsi soltanto su uno dei due fattori rende il quadro intero sbilanciato nelle sue tinte. Così, la tavolozza che mano a mano ne è emersa non lasciava scampo: i vertici della criminalità organizzata e delle consorterie che la costituivano in quegli anni (attenzione non pedine o anche soltanto boss qualunque seppure di rilievo) hanno influito e operato nel Caso Moro, moltissimo. Non soltanto per ciò che riguarda le presenze di uomini della ‘ndrangheta accertate o ancora da accertare sul luogo della strage, Via Fani, dove alle 9.02 del mattino la raffica di fuoco incrociato è partita, ma anche per quanto riguarda la gestione del sequestro fino alla consegna di Moro morto in Via Caetani, riverso nell’abitacolo di una Renault 4 rossa, e per le connivenze tra frange della lotta armata allineate alle BR e la criminalità organizzata e comune. A parte, poi, va considerato l’aspetto forse più noto al grande pubblico: il ruolo di alcune organizzazioni criminali nel tentativo di liberazione dell’onorevole Moro. Aspetto questo che ricostruito da me interamente dall’inizio, compiendo tabula rasa su quanto scritto e raccolto sino a quale momento da altri, ha anche fatto emergere dettagli e aneddoti rilevanti e nuovi per la comprensione dell’Affaire tutto. L’insieme di questa distesa di elementi conducevano tutti in Calabria: la ‘ndrangheta, cresciuta nel corso degli anni  all’ombra dei riflettori di una Cosa Nostra più ‘spettacolare’, infatti, rappresenta secondo quanto da me ricostruito la costante del Caso Moro e insieme la costante di altri eventi tragici che, come le ultime inchieste della Procura di Reggio Calabria certificano, ha attraversato questo Paese. Una costante operante quasi sempre con Cosa Nostra ma non necessariamente. 

Durante il corso delle indagini che la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso stava svolgendo, ho seguito dunque un mio percorso investigativo parallelo supportato ovviamente dalla ricerca incessante e dallo studio degli atti passati e nuovi che come già svolto per un’altra inchiesta, quella sulla morte di Pier Paolo Pasolini, mi ha poi portato a sviscerare elementi inediti e anche alla ricostruzione di un contesto mai considerato prima in modo unitario. Fino a giungere agli anni della trattativa Stato-mafia così come la conosciamo, quella il cui processo di Palermo è da poco culminato a un primo grado di condanne e ad alcune assoluzioni (parziali o totali). 

Il cuore di questo libro-inchiesta è costituito da due punti principali: da un lato la spiegazione del “mistero” del falso comunicato del lago della Duchessa, legato alla scoperta del covo di Via Gradoli il 18 aprile del 1978 nel bel mezzo del sequestro, e l’emersione di una nuova prigione in cui Aldo Moro è stato di passaggio durante la sua prigionia: un covo non lontano dal lago stesso nella Sabina fra il Lazio e l’Umbria, luogo legato a sua volta sia a elementi della lotta armata sia alla criminalità; dall’altro, lo sviluppo delle inchieste del generale Dalla Chiesa e il giudice Vittorio Occorsio sulle morti dei quali pesa l’ombra sia della mafia sia del terrorismo: entrambi, infatti, stavano indagando su una struttura riservata composta da parti della massoneria, della criminalità organizzata, consorterie politiche e della magistratura, e di elementi del terrorismo di destra e di sinistra. Nel libro, tra le altre cose inedite, viene per la prima volta pubblicato l’estratto di un verbale sconosciuto alle cronache e alle ricostruzioni sin qui svolte, un verbale che porta proprio la firma del Generale. Intorno a questi due punti cardinali della inchiesta vengono da me sviluppati ulteriori fatti e risvolti a essi collegati. La “geometrica potenza” invocata da Sciascia, espressione usata in un articolo sequestrato a Franco Piperno leader di Potere Operaio, e operativo presso l’Università della Calabria, si dispiega tutta qui. 

Attraverso un metodo giornalistico che definisco “della piramide rovesciata” arrivo dunque al cuore del Caso Moro cercando di consegnare un pezzo di verità mancante di questo segreto usurato della Repubblica. Con le “prove” che un giornalista umilmente può portare. 

Testo pubblicato sul Blog di La Repubblica “Mafie” di Attilio Bolzoni il 22 giugno 2018 

Caso Moro, i documenti americani confermano l’incriminazione di Pieczenik

La corte della Florida si appella al trattato di mutua assistenza esistente fra Italia e Stati Uniti per procedere all’interrogatorio dell’ex consigliere di Cossiga

di Simona Zecchi pubblicato il 05/06/14 su Lettera35

Steve Pieczenik, l’ex analista dell’antiterrorismo Usa coinvolto nell’omicidio del presidente della Dc Aldo Moro, ha pubblicato sul suo sito i documenti che confermano l’incriminazione, di cui Lettera35 ha riferito nei giorni scorsi, formulata nei suoi confronti dalla giustizia americana, dopo la rogatoria che la magistratura italiana ha promosso per sentirlo in qualità di testimone.

Dai toni e dalle parole usati nell’intervista rilasciata ad Alex Jones il 2 giugno, traspariva la contrarietà di Pieczenik verso Obama e la sua attuale politica estera, ponendo a confronto questa con l’ordine da lui eseguito, proveniente dall’allora amministrazione Carter, come inviato per risolvere il caso Moro. Con la sua tardiva ammissione del 2008 al giornalista francese Emmanuel Amara, nel libro Abbiamo ucciso Aldo Moro, Pieczenik affermò di essere stato parte dell’omicidio, rivelando, così, una notizia di reato. E proprio quanto contenuto nel libro avrebbe spinto il pm della Procura di Roma Luca Palamara, titolare di un filone d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio dello statista democristiano, ad avviare degli accertamenti e a recarsi negli Stati Uniti per sentire Pieczenik.

La pubblicazione dei documenti sembra essere in linea con l’atteggiamento dell’indagato. Ciò non toglie che questi, identificati da un numero d’ufficio (case No. 14-21380-MC-Altonaga) e provvisti di note a penna presumibilmente dello stesso Pieczenik, siano autentici. I documenti pubblicati sono in tutto due: il primo [leggi], datato 17 aprile 2014, proviene direttamente dal giudice distrettuale della Florida, Cecilia Altonaga, ed ha per oggetto la “Richiesta della Repubblica italiana (il termine Repubblica manca per un refuso ma è presente nel secondo documento con lo stesso oggetto di comunicazione, ndr) rispondente al trattato fra gli Stati Unti d’America e la Repubblica italiana in materia di mutua assistenza su questioni criminali riguardanti Aldo Moro”. Il secondo [leggi], datato 22 aprile 2014, proviene dal dirigente della procura della Florida Brian K. Frazier, che intima a Piecznik di comparire nel suo ufficio il 27 maggio.

La dicitura presente nell’oggetto della prima richiesta, quella proveniente dal giudice distrettuale, non ha una precisa sintassi perché deriva chiaramente da un formato standard: “in the Matter of unknown” (ossia relativamente a… sconosciuto), al quale viene poi aggiunto tra parentesi il nome di Aldo Moro. Nella richiesta del procuratore distrettuale Frazier invece l’oggetto è più esplicito e si riferisce propriamente al caso Moro.

Il primo documento è di fatto l’autorizzazione a procedere e la nomina di Brian Frazier ad emettere il mandato di comparizione nei confronti di Pieczenik, chiamato a fornire testimonianza in merito a presunte violazioni criminali riguardanti il caso Moro, come prevede il patto di mutua assistenza in materia criminale fra Stati Uniti e Italia. La comunicazione che Frazier invia a Pieczenik si conclude con l’ammonimento a non negare la sua disponibilità a testimoniare, cosa che comporterebbe conseguenze penali.

Certo la richiesta della procura italiana appare rivolta solo ad individuare ulteriori notizie di reato provenienti da Pieczenik. Per questo anche la giustizia americana si dimostra cauta e utilizza il termine “presunte” (alleged) nella definizione delle accuse formulate. Tuttavia è davvero possibile che la magistratura italiana continui a definire Pieczenik un semplice testimone dei fatti?

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L’Editoria su Pier Paolo Pasolini: come riuscire a districarsi

Articolo pubblicato sul sito di Notte Criminale il 26/12/11

di Simona Zecchi – PREMESSA DI OGGI 18/03/14

Scrissi l’articolo che segue, e che porta il titolo sopra, a fine dicembre del 2011 quando ancora non erano stati dati alle stampe altri due importanti contributi: “Frocio e basta” a cura di Carla BenedettiGiovanni Giovannetti di “Effigie Edizioni” e i molteplici contributi contenuti in un numero monografico de “I Quaderni de L’Ora” (<<Ila Palma Edizioni Palermo>>) dei direttori Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza nel quale è presente anche l’inchiesta svolta dalla sottoscritta, Simona Zecchi, e dalla collega Martina di Matteo. Inedita e ultima in ordine di “apparizione”, questa, dal titolo “Viaggio nella notte all’idroscalo”. L’inchiesta, senza pretese esaustive proprie di un lavoro giornalistico  totale  normalmente con tesi acclusa, fotografa e in parte riscrive la dinamica immediatamente successiva alla mattanza di cui fu vittima Pier Paolo Pasolini, quella notte fra il 1 e il 2 novembre del 1975. Getta così  luce sul ruolo di alcuni personaggi da sempre ritenuti in qualche modo legati a quella notte, dà un’ipotesi di dinamica  (suffragata tuttavia da diversi elementi) infine, contiene una rivelazione altrettanto inedita riguardante un faldone che conterrebbe la documentazione scomparsa tra le carte di Pasolini.

Il libro di Effigie Edizioni oltre a dare un proprio sguardo e punto di vista su motivi e mandanti, riconducibile  secondo gli autori alla tesi più  accreditata finora ossia il collegamento fra le morti di Enrico Mattei, Mauro De Mauro e Pasolini (la quale come leggerete più avanti fu resa nota e sviluppata  dai giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza) , si inoltra in un interessante viaggio quasi mai esplorato dalla saggistica immane sulla morte del poeta, ossia: in quel mondo della cultura e dell’intellighentia, soprattutto di sinistra, che ha contribuito per molti aspetti a dare ragione a chi continua a ripetere come un mantra che la morte del letterato e regista fu solo conseguenza della vita che conduceva. Certo a sinistra questo lavoro di “affossamento” viene svolto con più arguzia e anche per certi aspetti convinzione accumulatesi via via negli anni (qualcuno anche per diretta conoscenza dello scrittore) mostrando però al contrario una conoscenza non  parziale bensì  esclusiva di un aspetto soltanto del mondo, le opere e il suo significato di Pasolini. E’ come affrontare  un lavoro d’inchiesta giornalistica con una tesi già in mente in partenza, cosa che porta a scartare automaticamente tutto ciò che non ci convince e per questo comunque parziale e spesso fuorviante.

A dicembre infine su due quotidiani nazionali, rispettivamente “Il Tempo” e “Il Manifesto” si sono aggiunte alcune novità sul caso: la prima riguardante gli innumerevoli testi sentiti dalla Procura di Roma, che ha riaperto l’inchiesta già dal 2010 (titolare il sostituto prcuratore Francesco Minisci), indiscrezione questa in parte smininuita e smentita dallo stesso avvocato Maccioni qualche giorno dopo alla sottoscritta e alla Di Matteo in un articolo su Il Manifesto di più ampio respiro che comprendeva una lunga intervista a Pino Pelosi. L’intervista approfondiva alcuni fatti senza dar modo al Pelosi  di sfuggire a determinati assunti ormai incontrovertibili e soprattutto i protagonisti che avrebbero partecipato all’agguato e che venivano ben tratteggiati, quasi indicandone l’identità. Protagonisti provenienti da un mondo ben preciso fatto di giornalisti e avvocati in odore di P2 ed eversione nera accompagnati da un mondo altro vicino a Pasolini che in qualche modo si rese complice dell’agguato e delle sue conseguenze. Pelosi è per sua scelta ormai, per certi versi, inattendibile ma alcuni fatti non li ha mai smentiti e sono i fatti che danno il contorno se non la sostanza di ciò che accadde.

Oggi data l’uscita dell’intervista rilasciata dall’avvocato Stefano Maccioni (l’avvocato che per primo, insieme alla criminologa Simona Ruffini, fece riaprire l’indagine con nuovi elementi da cui ripartire), riguardante l’imminente chiusura dell’inchiesta giudiziaria ripropongo questo percorso nella saggistica sulla morte di Pasolini che spero possa essere d’aiuto almeno in buona parte sul lavoro spesso immane di giornalisti e saggisti che sempre hanno affrontato difficoltà, opposizioni e sacrifici per dare un contributo al disvelamento della verità. certo  non tutto, come accade nella norma, può essere provato e verificato ma gli indizi (che non sono mai prove) delineano un contesto politico, culturale  e sociale che ha segnato la vita repubblicana di questi ultimi 40 anni, nel quale la morte di Pasolini comunque rientra. Oggi lo scrittore non sarebbe probabilmente più vivo,  chissà, ma è certo che l’avremmo avuto tra noi per molto molto tempo ancora e con lui la sua voce critica e alta che ci spinge  a raccogliere gli elementi della realtà che ci occorre intorno e collegarli tra loro per andare “oltre il tessuto superficiale della cronaca e scoprire il cancro come dei chirurghi”.

 ViscaPier Paolo Pasolini – Una Morte Violenta”, (Castelvecchi, 2010) l’inchiesta della prima cronista sul posto la mattina del 2 novembre 1975, Lucia Visca; “Io so…come hanno ucciso Pasolini” (Vertigo Edizioni, 2011) di Pino Pelosi, con il ghost-writing del regista Federico Bruno e l’avvocato Alessandro Olivieri; “Il Patto” (2011) un audio-documentario sulla riapertura delle indagini, del documentarista Roman Herzog, “Nessuna Pietà per Pasolini” (Editori Internazionali Riuniti, 2011) del giornalista Valter Rizzo, l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini.

Sono i più recenti contributi dati in stampa che affrontano quella dinamica a forma di matassa che ha avvolto la morte di Pasolini; una matassa che continua a riavvolgersi ogni giorno, ogni anno e a ogni anniversario della morte dell’intellettuale scippato all’Italia  ormai 36 anni fa.

Ore 7.00 del 2 novembre 1975: inizia tutto da lì l’assalto mediatico. Una telefonata del brigadiere di Ostia avverte la cronista che si occupava del litorale romano per Paese Sera, Lucia Visca:<<Abbiamo un morto all’idroscalo. Interessa?>>. È la prima giovane penna  che deve marcare stretto il commissariato di zona e fare da spalla alle firme più importanti, a raccontare in un pamphlet/inchiesta quelle prime ore dove già tutti i misteri erano accaduti. Fino al 3 novembre 1975 ore 8.35 in cui il quotidiano riporta i fatti della notte prima ma senza la sua firma: come l’iter scandito di allora voleva, la gavetta prima e sempre. Visca come tutti sta ancora attendendo le risposte sul movente che ha mosso quelle mani sul corpo di Pasolini.

Il libro di Pelosi, presentato a Roma il 28 ottobre scorso dove fu protagonista un’incursione particolare, quella del fotografo di Pasolini, Dino Pedriali: affermazioni per chiarire, fare distinguo e riuscire ad avere una piccola parte in questa storia affollata di personaggi. Il libro, dicevamo, è l’ultima confessione sempre scevra dell’ultima vera verità, come lo stesso autore e protagonista di quella notte di sangue, Pino Pelosi,  scrive nella premessa:<< Mentre leggete, cercate anche di intuire il non detto, quello che ancora oggi non si può rivelare.>> Pelosi rivela alcuni fatti che, per chi segue questa storia da un po’ di tempo e a a vario titolo, sono spesso dati per scontati perché a volte presenti negli atti processuali acquisiti negli anni; oppure perché già rivelate prima ma senza il crisma della confessione, magari a mezza bocca oppure riferite da altri “che sanno”.

Il patto

Poi l’audio-documentario di Roman Herzog “Il Patto”, che riapre la questione dal punto di vista giudiziario e col solo ausilio delle voci (da quella di PPP, Alberto Moravia, Ettore Scola o persino i ragazzi dell’Idroscalo e del cugino di Pasolini Guido Mazzon, il cui legale Stefano Maccioni, oltre ad essere il co-autore del libro citato prima è anche stato il fautore, insieme a Simona Ruffini, della riapertura delle indagini nel 2010 su richiesta depositata nel 2009.) Il documento parte dalla dichiarazione del senatore Marcello Dell’Utri (PDL). La dichiarazione viene ripresa su molti quotidiani:<<Ho incontrato una persona che non conoscevo in una pubblica manifestazione; mi si è avvicinato mostrandomi una cartelletta in cui c’era dentro un capitolo di “Petrolio” e chiedendomi se fossi interessato. L’ho aperta e ho visto una serie di fogli in carta velina battuti a macchina con correzioni a penna: “Lampi su Eni” era il titolo; poiché volevo leggerlo lo invitai a passare nella mia biblioteca il giorno dopo ma lui non è più passato>>. Il racconto sulla riapertura delle indagini prosegue con l’intervento di Walter Veltroni e la risposta sul Corriere dell’ex Ministro della Giustizia Angelino Alfano. Una lettura questa un pò riduttiva sull’input che ha dato il LA alla riapertura delle indagini, visto che quello vero fu dato da Maccioni e Ruffini; il punto è che effetto mediatico e verità dei fatti spesso si sovrappongono e mescolandosi danno soluzioni diverse.

Tuttavia il documentario è molto interessante per i contributi dei vari protagonisti che si avvicendano: giornalisti, avvocati, intellettuali. Tutte testimonianze significative del tempo e dei tempi trascorsi senza le quali è difficile districarsi per capire l’intera vicenda: anche quando queste testimonianze non raccontano il vero, o raccontano solo il verosimile o quello che credono di sapere.

“Il Patto” pone la questione, documentata, sul motivo che ha spinto Dell’Utri a fare quella dichiarazione, le cui conseguenze  hanno visto l’ultimo atto proprio in questi giorni, quando il procuratore Antonio Ingroia ha chiamato in Procura il senatore per capire meglio questo aneddoto, in riferimento alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro nel 1970. Com’è noto, infatti, questa scomparsa viene collegata a quella dell’ex presidente dell’Eni Enrico Mattei e a quella di P.P. Pasolini. Lo hanno dimostrato in un’inchiesta giornalistica Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (“Profondo nero”, Chiarelettere 2008) e l’hanno presa in seria considerazione in primis il procuratore di Parma Vincenzo Calia e appunto Antonio Ingroia: in particolare su quanto emerso con riferimento al manoscritto “Petrolio” e al libro “Questo è Cefis” di Giorgio Steimetz; ovvero la tesi secondo la quale lo scrittore ucciso sarebbe venuto a conoscenza dei mandanti dell’omicidio Mattei indicandoli nel proprio romanzo “Petrolio”.

profondo nero

“Nessuna Pietà…” di Rizzo, Maccioni e Ruffini contiene due punti essenziali nella storiografia delle piste che vogliono spiegare quel delitto efferato, compiuto in un momento di compromesso storico imminente poi sfumato tra PCI e DC, in un momento in cui le contrapposizioni violente fra“rossi” e “neri” e gli interessi economici alla base di tutto non accettavano le domande di chi voleva capire e per questo indagava anche indietro nel tempo, come Pasolini.  Innanzitutto la pista “Catania” più volte anch’essa suggerita nel corso del tempo. La pista siciliana  viene accennata nel Prologo con già 4 protagonisti e a distanza di 10 anni dalla morte del regista: tre giovani e un letterato su un espresso che da Catania portava verso Roma. Una pista che viene ripresa in un capitolo  nel quale l’identità del letterato non viene rivelata per richiesta dello stesso; una conversazione raccolta dal giornalista di Chi l’ha visto Valter Rizzo, che filmò anche l’intervista a Pelosi andata in onda nella trasmissione nel 2009. L’uomo racconta della Catania vista da Pasolini che utilizzava come rifugio dagli “amici romani” (anche, a suo dire, da Laura Betti attrice e cantante italiana molto vicina a Pasolini e dalla quale difficilmente però lo scrittore si voleva separare; la stessa che ha passato gli ultimi anni della sua vita a prendersi cura del Fondo istituito per il suo amico e collega). A Catania, rivela l’uomo, Pasolini  cercava storie e volti per i suoi film, indagava a livello sociologico sui ragazzi prestati al fascismo imperante di quegli anni. Una Catania in cui Pasolini sembrerebbe aver vissuto un’altra delle sue vite. L’uomo parla delle contraddizioni e dei lati oscuri del poeta per averlo conosciuto in ambito universitario, appunto 30 anni prima, e del suo rapporto irrisolto con l’omosessualità. Tuttavia, negli anni di cui si parla nel libro questo rapporto che, secondo l’uomo, Pasolini cercava di espiare tramite il pagamento delle prestazioni, Pier Paolo lo aveva già risolto, come si evince dalle lettere pubblicate dal biografo e cugino Nico Naldini (“Vita attraverso le Lettere” Einaudi 1993) e scritte tra il 1955 e il 1975 poco prima di morire: “La mia omosessualità non è più un Altro dentro di me” – Lettera a Franco Farolfi, 1948; “come la libidine, anche la purezza è inesauribile: si ricostituisce dentro per conto suo” – aprile 1954; infine più esplicita già prima nel 1950 a Silvana Mauri: ”non m’è ne mi sarà sempre possibile parlare con pudore di me; e mi sarà invece necessario spesso mettermi alla gogna, perché non voglio più ingannare nessuno”. Dunque, lo spartiacque era avvenuto già durante il passaggio letterario e geografico fra il mondo friulano e quello romano della borgata dove Pasolini esprimeva la sua omessualità ormai senza più “pudore”.  Certo i movimenti dei marchettari catanesi utilizzati come picchiatori e che si spostavano da Catania verso Roma va verificato e collegato con la morte di Pasolini se si vuole inserire questa vicenda con quella di Enrico Mattei. Certo l’aereo è partito da Catania e lì verosimilmente sabotato. Ma Pasolini è stato ucciso a Roma sul litorale laziale e il territorio, soprattutto in quegli anni ha un significato e una simbologia determinanti. L’altro punto riguarda il verbale “scomparso” o “dimenticato”: quel verbale in cui il ristoratore Panzironi nel riferire agli inquirenti della cena consumata al Biondo Tevere, fa un identikit della persona che accompagnava lo scrittore diversa da quella di Pelosi. Capelli lunghi biondi invece di ricci e scuri (Pelosi) e subito dopo, in modo contraddittorio, conferma invece l’identità riferita al Pelosi. Un verbale di istruzione sommaria non sconosciuto, già diffuso attraverso un libro di autori vari con la prefazione di Giorgio Galli: “Omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo” (Kaos, 1992) un estratto di atti processuali ripresi dalle inchieste fino alla sentenza della corte di cassazione. Tra i verbali molte le cose rimaste senza approfondimenti veri, dunque, questo verbale rimane un’incongruenza tra tante, seppure gli spunti si rivelano interessanti e la costruzione della vicenda tutta contribuisce a fare chiarezza su alcuni aspetti.

KAOS PASOLINI

È doveroso citare tra gli scritti che vogliono riportare l’intellettuale alla memoria collettiva soprattutto dei ragazzi il libro di Fulvio AbbatePier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi” (Dalai Editore, 2011). Un testo a metà tra il racconto biografico e i pezzi amarcord che rivelano più di qualsiasi opinione  il peso culturale e umano rappresentato da Pasolini.

abbate

Resta forse difficile districarsi ma allo stesso tempo il contributo di tutti è rivelatore dell’importanza che questa vicenda ha nella storia del nostro paese e insieme può fungere da ausilio tecnico e  culturale alle indagini in corso per la prima volta rimaste aperte e non seppellite di fretta.

“Pier Paolo Pasolini – Una Morte Violenta”, (Castelvecchi, 2010) l’inchiesta della prima cronista sul posto la mattina del 2 novembre 1975, Lucia Visca; “Io so…come hanno ucciso Pasolini” (Vertigo Edizioni, 2011) di Pino Pelosi, con il ghost-writing del regista Federico Bruno e l’avvocato Alessandro Olivieri; “Il Patto” (2011) un audio-documentario sulla riapertura delle indagini, del documentarista Roman Herzog, “Nessuna Pietà per Pasolini” (Editori Internazionali Riuniti, 2011) del giornalista Valter Rizzo, l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini.
 Sono i più recenti contributi dati in stampa che affrontano quella dinamica a forma di matassa che ha avvolto la morte di Pasolini; una matassa che continua a riavvolgersi ogni giorno, ogni anno e a ogni anniversario della morte dell’intellettuale scippato all’Italia ormai 36 anni fa.
 Ore 7.00 del 2 novembre 1975: inizia tutto da lì l’assalto mediatico. Una telefonata del brigadiere di Ostia avverte la cronista che si occupava del litorale romano per Paese Sera, Lucia Visca:< Abbiamo un morto all’Idroscalo. Interessa?>. È la prima giovane penna che deve marcare stretto il commissariato di zona e fare da spalla alle firme più importanti, a raccontare in un pamphlet/inchiesta quelle prime ore dove già tutti i misteri erano accaduti.
Fino al 3 novembre 1975 ore 8.35 in cui il quotidiano riporta i fatti della notte prima ma senza la sua firma: come l’iter scandito di allora voleva, la gavetta prima e sempre. Visca come tutti sta ancora attendendo le risposte sul movente che ha mosso quelle mani sul corpo di Pasolini.
 Il libro di Pelosi, presentato a Roma il 28 ottobre scorso dove fu protagonista un’incursione particolare, quella del fotografo di Pasolini, Dino Pedriali: affermazioni per chiarire, fare distinguo e riuscire ad avere una piccola parte in questa storia affollata di personaggi. Il libro, dicevamo, è l’ultima confessione sempre scevra dell’ultima vera verità, come lo stesso autore e protagonista di quella notte di sangue, Pino Pelosi, scrive nella premessa: Pelosi rivela alcuni fatti che, per chi segue questa storia da un po’ di tempo e a a vario titolo, sono spesso dati per scontati perché a volte presenti negli atti processuali acquisiti negli anni; oppure perché già rivelate prima ma senza il crisma della confessione, magari a mezza bocca oppure riferite da altri “che sanno”.

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