Dentro il Fatto

Home » Approfondimenti » Recensioni

Category Archives: Recensioni

L’Editoria su Pier Paolo Pasolini: come riuscire a districarsi

Articolo pubblicato sul sito di Notte Criminale il 26/12/11

di Simona Zecchi – PREMESSA DI OGGI 18/03/14

Scrissi l’articolo che segue, e che porta il titolo sopra, a fine dicembre del 2011 quando ancora non erano stati dati alle stampe altri due importanti contributi: “Frocio e basta” a cura di Carla BenedettiGiovanni Giovannetti di “Effigie Edizioni” e i molteplici contributi contenuti in un numero monografico de “I Quaderni de L’Ora” (<<Ila Palma Edizioni Palermo>>) dei direttori Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza nel quale è presente anche l’inchiesta svolta dalla sottoscritta, Simona Zecchi, e dalla collega Martina di Matteo. Inedita e ultima in ordine di “apparizione”, questa, dal titolo “Viaggio nella notte all’idroscalo”. L’inchiesta, senza pretese esaustive proprie di un lavoro giornalistico  totale  normalmente con tesi acclusa, fotografa e in parte riscrive la dinamica immediatamente successiva alla mattanza di cui fu vittima Pier Paolo Pasolini, quella notte fra il 1 e il 2 novembre del 1975. Getta così  luce sul ruolo di alcuni personaggi da sempre ritenuti in qualche modo legati a quella notte, dà un’ipotesi di dinamica  (suffragata tuttavia da diversi elementi) infine, contiene una rivelazione altrettanto inedita riguardante un faldone che conterrebbe la documentazione scomparsa tra le carte di Pasolini.

Il libro di Effigie Edizioni oltre a dare un proprio sguardo e punto di vista su motivi e mandanti, riconducibile  secondo gli autori alla tesi più  accreditata finora ossia il collegamento fra le morti di Enrico Mattei, Mauro De Mauro e Pasolini (la quale come leggerete più avanti fu resa nota e sviluppata  dai giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza) , si inoltra in un interessante viaggio quasi mai esplorato dalla saggistica immane sulla morte del poeta, ossia: in quel mondo della cultura e dell’intellighentia, soprattutto di sinistra, che ha contribuito per molti aspetti a dare ragione a chi continua a ripetere come un mantra che la morte del letterato e regista fu solo conseguenza della vita che conduceva. Certo a sinistra questo lavoro di “affossamento” viene svolto con più arguzia e anche per certi aspetti convinzione accumulatesi via via negli anni (qualcuno anche per diretta conoscenza dello scrittore) mostrando però al contrario una conoscenza non  parziale bensì  esclusiva di un aspetto soltanto del mondo, le opere e il suo significato di Pasolini. E’ come affrontare  un lavoro d’inchiesta giornalistica con una tesi già in mente in partenza, cosa che porta a scartare automaticamente tutto ciò che non ci convince e per questo comunque parziale e spesso fuorviante.

A dicembre infine su due quotidiani nazionali, rispettivamente “Il Tempo” e “Il Manifesto” si sono aggiunte alcune novità sul caso: la prima riguardante gli innumerevoli testi sentiti dalla Procura di Roma, che ha riaperto l’inchiesta già dal 2010 (titolare il sostituto prcuratore Francesco Minisci), indiscrezione questa in parte smininuita e smentita dallo stesso avvocato Maccioni qualche giorno dopo alla sottoscritta e alla Di Matteo in un articolo su Il Manifesto di più ampio respiro che comprendeva una lunga intervista a Pino Pelosi. L’intervista approfondiva alcuni fatti senza dar modo al Pelosi  di sfuggire a determinati assunti ormai incontrovertibili e soprattutto i protagonisti che avrebbero partecipato all’agguato e che venivano ben tratteggiati, quasi indicandone l’identità. Protagonisti provenienti da un mondo ben preciso fatto di giornalisti e avvocati in odore di P2 ed eversione nera accompagnati da un mondo altro vicino a Pasolini che in qualche modo si rese complice dell’agguato e delle sue conseguenze. Pelosi è per sua scelta ormai, per certi versi, inattendibile ma alcuni fatti non li ha mai smentiti e sono i fatti che danno il contorno se non la sostanza di ciò che accadde.

Oggi data l’uscita dell’intervista rilasciata dall’avvocato Stefano Maccioni (l’avvocato che per primo, insieme alla criminologa Simona Ruffini, fece riaprire l’indagine con nuovi elementi da cui ripartire), riguardante l’imminente chiusura dell’inchiesta giudiziaria ripropongo questo percorso nella saggistica sulla morte di Pasolini che spero possa essere d’aiuto almeno in buona parte sul lavoro spesso immane di giornalisti e saggisti che sempre hanno affrontato difficoltà, opposizioni e sacrifici per dare un contributo al disvelamento della verità. certo  non tutto, come accade nella norma, può essere provato e verificato ma gli indizi (che non sono mai prove) delineano un contesto politico, culturale  e sociale che ha segnato la vita repubblicana di questi ultimi 40 anni, nel quale la morte di Pasolini comunque rientra. Oggi lo scrittore non sarebbe probabilmente più vivo,  chissà, ma è certo che l’avremmo avuto tra noi per molto molto tempo ancora e con lui la sua voce critica e alta che ci spinge  a raccogliere gli elementi della realtà che ci occorre intorno e collegarli tra loro per andare “oltre il tessuto superficiale della cronaca e scoprire il cancro come dei chirurghi”.

 ViscaPier Paolo Pasolini – Una Morte Violenta”, (Castelvecchi, 2010) l’inchiesta della prima cronista sul posto la mattina del 2 novembre 1975, Lucia Visca; “Io so…come hanno ucciso Pasolini” (Vertigo Edizioni, 2011) di Pino Pelosi, con il ghost-writing del regista Federico Bruno e l’avvocato Alessandro Olivieri; “Il Patto” (2011) un audio-documentario sulla riapertura delle indagini, del documentarista Roman Herzog, “Nessuna Pietà per Pasolini” (Editori Internazionali Riuniti, 2011) del giornalista Valter Rizzo, l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini.

Sono i più recenti contributi dati in stampa che affrontano quella dinamica a forma di matassa che ha avvolto la morte di Pasolini; una matassa che continua a riavvolgersi ogni giorno, ogni anno e a ogni anniversario della morte dell’intellettuale scippato all’Italia  ormai 36 anni fa.

Ore 7.00 del 2 novembre 1975: inizia tutto da lì l’assalto mediatico. Una telefonata del brigadiere di Ostia avverte la cronista che si occupava del litorale romano per Paese Sera, Lucia Visca:<<Abbiamo un morto all’idroscalo. Interessa?>>. È la prima giovane penna  che deve marcare stretto il commissariato di zona e fare da spalla alle firme più importanti, a raccontare in un pamphlet/inchiesta quelle prime ore dove già tutti i misteri erano accaduti. Fino al 3 novembre 1975 ore 8.35 in cui il quotidiano riporta i fatti della notte prima ma senza la sua firma: come l’iter scandito di allora voleva, la gavetta prima e sempre. Visca come tutti sta ancora attendendo le risposte sul movente che ha mosso quelle mani sul corpo di Pasolini.

Il libro di Pelosi, presentato a Roma il 28 ottobre scorso dove fu protagonista un’incursione particolare, quella del fotografo di Pasolini, Dino Pedriali: affermazioni per chiarire, fare distinguo e riuscire ad avere una piccola parte in questa storia affollata di personaggi. Il libro, dicevamo, è l’ultima confessione sempre scevra dell’ultima vera verità, come lo stesso autore e protagonista di quella notte di sangue, Pino Pelosi,  scrive nella premessa:<< Mentre leggete, cercate anche di intuire il non detto, quello che ancora oggi non si può rivelare.>> Pelosi rivela alcuni fatti che, per chi segue questa storia da un po’ di tempo e a a vario titolo, sono spesso dati per scontati perché a volte presenti negli atti processuali acquisiti negli anni; oppure perché già rivelate prima ma senza il crisma della confessione, magari a mezza bocca oppure riferite da altri “che sanno”.

Il patto

Poi l’audio-documentario di Roman Herzog “Il Patto”, che riapre la questione dal punto di vista giudiziario e col solo ausilio delle voci (da quella di PPP, Alberto Moravia, Ettore Scola o persino i ragazzi dell’Idroscalo e del cugino di Pasolini Guido Mazzon, il cui legale Stefano Maccioni, oltre ad essere il co-autore del libro citato prima è anche stato il fautore, insieme a Simona Ruffini, della riapertura delle indagini nel 2010 su richiesta depositata nel 2009.) Il documento parte dalla dichiarazione del senatore Marcello Dell’Utri (PDL). La dichiarazione viene ripresa su molti quotidiani:<<Ho incontrato una persona che non conoscevo in una pubblica manifestazione; mi si è avvicinato mostrandomi una cartelletta in cui c’era dentro un capitolo di “Petrolio” e chiedendomi se fossi interessato. L’ho aperta e ho visto una serie di fogli in carta velina battuti a macchina con correzioni a penna: “Lampi su Eni” era il titolo; poiché volevo leggerlo lo invitai a passare nella mia biblioteca il giorno dopo ma lui non è più passato>>. Il racconto sulla riapertura delle indagini prosegue con l’intervento di Walter Veltroni e la risposta sul Corriere dell’ex Ministro della Giustizia Angelino Alfano. Una lettura questa un pò riduttiva sull’input che ha dato il LA alla riapertura delle indagini, visto che quello vero fu dato da Maccioni e Ruffini; il punto è che effetto mediatico e verità dei fatti spesso si sovrappongono e mescolandosi danno soluzioni diverse.

Tuttavia il documentario è molto interessante per i contributi dei vari protagonisti che si avvicendano: giornalisti, avvocati, intellettuali. Tutte testimonianze significative del tempo e dei tempi trascorsi senza le quali è difficile districarsi per capire l’intera vicenda: anche quando queste testimonianze non raccontano il vero, o raccontano solo il verosimile o quello che credono di sapere.

“Il Patto” pone la questione, documentata, sul motivo che ha spinto Dell’Utri a fare quella dichiarazione, le cui conseguenze  hanno visto l’ultimo atto proprio in questi giorni, quando il procuratore Antonio Ingroia ha chiamato in Procura il senatore per capire meglio questo aneddoto, in riferimento alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro nel 1970. Com’è noto, infatti, questa scomparsa viene collegata a quella dell’ex presidente dell’Eni Enrico Mattei e a quella di P.P. Pasolini. Lo hanno dimostrato in un’inchiesta giornalistica Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (“Profondo nero”, Chiarelettere 2008) e l’hanno presa in seria considerazione in primis il procuratore di Parma Vincenzo Calia e appunto Antonio Ingroia: in particolare su quanto emerso con riferimento al manoscritto “Petrolio” e al libro “Questo è Cefis” di Giorgio Steimetz; ovvero la tesi secondo la quale lo scrittore ucciso sarebbe venuto a conoscenza dei mandanti dell’omicidio Mattei indicandoli nel proprio romanzo “Petrolio”.

profondo nero

“Nessuna Pietà…” di Rizzo, Maccioni e Ruffini contiene due punti essenziali nella storiografia delle piste che vogliono spiegare quel delitto efferato, compiuto in un momento di compromesso storico imminente poi sfumato tra PCI e DC, in un momento in cui le contrapposizioni violente fra“rossi” e “neri” e gli interessi economici alla base di tutto non accettavano le domande di chi voleva capire e per questo indagava anche indietro nel tempo, come Pasolini.  Innanzitutto la pista “Catania” più volte anch’essa suggerita nel corso del tempo. La pista siciliana  viene accennata nel Prologo con già 4 protagonisti e a distanza di 10 anni dalla morte del regista: tre giovani e un letterato su un espresso che da Catania portava verso Roma. Una pista che viene ripresa in un capitolo  nel quale l’identità del letterato non viene rivelata per richiesta dello stesso; una conversazione raccolta dal giornalista di Chi l’ha visto Valter Rizzo, che filmò anche l’intervista a Pelosi andata in onda nella trasmissione nel 2009. L’uomo racconta della Catania vista da Pasolini che utilizzava come rifugio dagli “amici romani” (anche, a suo dire, da Laura Betti attrice e cantante italiana molto vicina a Pasolini e dalla quale difficilmente però lo scrittore si voleva separare; la stessa che ha passato gli ultimi anni della sua vita a prendersi cura del Fondo istituito per il suo amico e collega). A Catania, rivela l’uomo, Pasolini  cercava storie e volti per i suoi film, indagava a livello sociologico sui ragazzi prestati al fascismo imperante di quegli anni. Una Catania in cui Pasolini sembrerebbe aver vissuto un’altra delle sue vite. L’uomo parla delle contraddizioni e dei lati oscuri del poeta per averlo conosciuto in ambito universitario, appunto 30 anni prima, e del suo rapporto irrisolto con l’omosessualità. Tuttavia, negli anni di cui si parla nel libro questo rapporto che, secondo l’uomo, Pasolini cercava di espiare tramite il pagamento delle prestazioni, Pier Paolo lo aveva già risolto, come si evince dalle lettere pubblicate dal biografo e cugino Nico Naldini (“Vita attraverso le Lettere” Einaudi 1993) e scritte tra il 1955 e il 1975 poco prima di morire: “La mia omosessualità non è più un Altro dentro di me” – Lettera a Franco Farolfi, 1948; “come la libidine, anche la purezza è inesauribile: si ricostituisce dentro per conto suo” – aprile 1954; infine più esplicita già prima nel 1950 a Silvana Mauri: ”non m’è ne mi sarà sempre possibile parlare con pudore di me; e mi sarà invece necessario spesso mettermi alla gogna, perché non voglio più ingannare nessuno”. Dunque, lo spartiacque era avvenuto già durante il passaggio letterario e geografico fra il mondo friulano e quello romano della borgata dove Pasolini esprimeva la sua omessualità ormai senza più “pudore”.  Certo i movimenti dei marchettari catanesi utilizzati come picchiatori e che si spostavano da Catania verso Roma va verificato e collegato con la morte di Pasolini se si vuole inserire questa vicenda con quella di Enrico Mattei. Certo l’aereo è partito da Catania e lì verosimilmente sabotato. Ma Pasolini è stato ucciso a Roma sul litorale laziale e il territorio, soprattutto in quegli anni ha un significato e una simbologia determinanti. L’altro punto riguarda il verbale “scomparso” o “dimenticato”: quel verbale in cui il ristoratore Panzironi nel riferire agli inquirenti della cena consumata al Biondo Tevere, fa un identikit della persona che accompagnava lo scrittore diversa da quella di Pelosi. Capelli lunghi biondi invece di ricci e scuri (Pelosi) e subito dopo, in modo contraddittorio, conferma invece l’identità riferita al Pelosi. Un verbale di istruzione sommaria non sconosciuto, già diffuso attraverso un libro di autori vari con la prefazione di Giorgio Galli: “Omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo” (Kaos, 1992) un estratto di atti processuali ripresi dalle inchieste fino alla sentenza della corte di cassazione. Tra i verbali molte le cose rimaste senza approfondimenti veri, dunque, questo verbale rimane un’incongruenza tra tante, seppure gli spunti si rivelano interessanti e la costruzione della vicenda tutta contribuisce a fare chiarezza su alcuni aspetti.

KAOS PASOLINI

È doveroso citare tra gli scritti che vogliono riportare l’intellettuale alla memoria collettiva soprattutto dei ragazzi il libro di Fulvio AbbatePier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi” (Dalai Editore, 2011). Un testo a metà tra il racconto biografico e i pezzi amarcord che rivelano più di qualsiasi opinione  il peso culturale e umano rappresentato da Pasolini.

abbate

Resta forse difficile districarsi ma allo stesso tempo il contributo di tutti è rivelatore dell’importanza che questa vicenda ha nella storia del nostro paese e insieme può fungere da ausilio tecnico e  culturale alle indagini in corso per la prima volta rimaste aperte e non seppellite di fretta.

“Pier Paolo Pasolini – Una Morte Violenta”, (Castelvecchi, 2010) l’inchiesta della prima cronista sul posto la mattina del 2 novembre 1975, Lucia Visca; “Io so…come hanno ucciso Pasolini” (Vertigo Edizioni, 2011) di Pino Pelosi, con il ghost-writing del regista Federico Bruno e l’avvocato Alessandro Olivieri; “Il Patto” (2011) un audio-documentario sulla riapertura delle indagini, del documentarista Roman Herzog, “Nessuna Pietà per Pasolini” (Editori Internazionali Riuniti, 2011) del giornalista Valter Rizzo, l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini.
 Sono i più recenti contributi dati in stampa che affrontano quella dinamica a forma di matassa che ha avvolto la morte di Pasolini; una matassa che continua a riavvolgersi ogni giorno, ogni anno e a ogni anniversario della morte dell’intellettuale scippato all’Italia ormai 36 anni fa.
 Ore 7.00 del 2 novembre 1975: inizia tutto da lì l’assalto mediatico. Una telefonata del brigadiere di Ostia avverte la cronista che si occupava del litorale romano per Paese Sera, Lucia Visca:< Abbiamo un morto all’Idroscalo. Interessa?>. È la prima giovane penna che deve marcare stretto il commissariato di zona e fare da spalla alle firme più importanti, a raccontare in un pamphlet/inchiesta quelle prime ore dove già tutti i misteri erano accaduti.
Fino al 3 novembre 1975 ore 8.35 in cui il quotidiano riporta i fatti della notte prima ma senza la sua firma: come l’iter scandito di allora voleva, la gavetta prima e sempre. Visca come tutti sta ancora attendendo le risposte sul movente che ha mosso quelle mani sul corpo di Pasolini.
 Il libro di Pelosi, presentato a Roma il 28 ottobre scorso dove fu protagonista un’incursione particolare, quella del fotografo di Pasolini, Dino Pedriali: affermazioni per chiarire, fare distinguo e riuscire ad avere una piccola parte in questa storia affollata di personaggi. Il libro, dicevamo, è l’ultima confessione sempre scevra dell’ultima vera verità, come lo stesso autore e protagonista di quella notte di sangue, Pino Pelosi, scrive nella premessa: Pelosi rivela alcuni fatti che, per chi segue questa storia da un po’ di tempo e a a vario titolo, sono spesso dati per scontati perché a volte presenti negli atti processuali acquisiti negli anni; oppure perché già rivelate prima ma senza il crisma della confessione, magari a mezza bocca oppure riferite da altri “che sanno”.

– See more at: http://www.nottecriminale.it/l-editoria-su-pier-paolo-pasolini-come-riuscire-a-districarsi.html#sthash.yZ8CEgid.dpuf

Diaz –Don’t Clean Up This Blood

articolo uscito su Notte criminale il 19/04/2012 di Simona Zecchi

Dopo anni di silenzio condito solo da qualche informazione giudiziaria tra l’omicidio Giuliani, le responsabilità dei manifestanti, e i poliziotti coinvolti nella “macelleria messicana”, esce il film sugli eventi che più hanno insanguinato il G8 2001. Il blitz alla Scuola Diaz e i soprusi alla caserma Bolzaneto avvenuti la notte del 21 luglio che ha prodotto 93 vittime. Una visione per stomaci forti ma necessaria

Il cinema che scava nella memoria e tra le coscienze, dopo anni di silenzio interrotto da una serie di produzioni commerciali e alcune dimostrazioni d’autore, torna finalmente dirompente: film politici (come Romanzo di una Strage di Marco Tullio Giordana, uscito nelle sale da pochi giorni) o a prova di attualità come in Acab –All Cops are bastard(…) Generi diversi tra loro ma che scandagliano nei fatti torbidi di cronaca e di storia e la cui parola FINE ancora non appare dopo i titoli di coda infinita qual è quella della cronaca giudiziaria. 

“Diaz – Non pulite quel sangue”, per la regia di Daniele Vicari e la produzione di Domenico ProcacciFandango – già premiato al Festival di Berlino (erroneamente tradotto in Italia all’infinito – non pulire – e invece no la frase è un’esortazione corale a non rimuovere quella “macelleria” dalle coscienze, quel cumulo di sangue sparso). 

E “macelleria messicana” è stata l’espressione precisa usata dal vice questore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma Michelangelo Fournier tra i 28 poliziotti imputati (su 400 circa che hanno fatto irruzione nelle scuole Diaz, Pertini e Pascoli di Genova mentre era in corso il G8), che in parte ammise le violenze ma che cercò di sminuire le responsabilità personali dei suoi uomini su ciò che è accaduto. 

Fournier allora guidava il VII gruppo i cui uomini, insieme a Digos e agenti della mobile, irruppero nella Diaz mentre i carabinieri cinturavano l’edificio. Fournier, dichiarerà ai PM nel corso delle prime indagini: “Intorno alla ragazza per terra c’erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze” (Fonte La Repubblica 13-06-2007). 

Questa scena nel film viene letteralmente trasposta da Vicari, con l’interpretazione asciutta ma efficace nel linguaggio del corpo e degli sguardi di Claudio Santamaria, che riesce a trasmettere l’orrore da lui percepito al momento del suo arrivo, quando i suoi uomini avevano già usato quasi tutta la forza nel tonfa su ragazzi, anziani, giornalisti e passanti decisi a restare a dormire quella notte.

Ma Fournier/Santamaria non è il buono e probabilmente non lo è stato nemmeno nelle intenzioni del regista Vicari. Fournier/Santamaria è solo chi aveva forse più lucidità di tutti e un briciolo di coscienza per comprendere che la rabbia che si era anteposta alla missione (quale poi ancora non è chiaro nonostante siano passati 11 anni) aveva preso la mano e accecato gli occhi dei suoi uomini. 

Certo del personaggio si registrano anche le intuizioni da lui avute, nel ricevere gli ordini, sulle reali intenzioni del vertice che, come anche gli atti giudiziari hanno registrato, ha preparato quel blitz sin nei particolari, alla ricerca di ‘feroci’ manifestanti (i Black Bloc su tutti, il cui ruolo però nel film non è descritto a pieno). 

Il film è un susseguirsi sapiente di flashback narrativi, a seconda dei punti di vista dei protagonisti: il giornalista italiano della Gazzetta di Bologna/ Elio Germano, lo stesso vice-questore, l’anarchica tedesca Alma, testimone reale che non ha voluto comparisse il suo vero nome, interpretata dalla bravissima Jennifer Ulrich: l’anarchica decide di occuparsi dei dispersi insieme a un italiano e le torture da lei subite vengono raccontate con l’effetto di tanti pugni allo stomaco. 

Torture dimostrate ma non punite perché il reato in Italia non è contemplato nel nostro codice penale. E’ un movimento, quello delle scene, capace di catturare il ruolo di tutti senza fare di ogni erba un fascio lasciando incollati al video non per il gusto della violenza ma per il diretto rapporto che la memoria di quei giorni scatena e fa riflettere. 

Oltre ai flash back narrativi, le immagini si incastrano e alternano con i filmati del tempo quelli riportati dai manifestanti stessi attraverso videocamere e telefonini, anche lì altro punto di vista il cui filtro personale però viene reso oggettivo dalle violenze che scorrono da entrambe le parti durante la manifestazione; allo stesso modo le violenze di una sola parte presso la Scuola Diaz nella “zona rossa” sono rese oggettive e obiettive perché uniche. 

E’ solo grazie a questi filmati, infatti, se qualcuno dei responsabili nella realtà ha pagato. Come ad esempio quando nel 2002 tramite alcune foto e riprese viene svelata la reale provenienza delle molotov “trovate” durante il blitz. E’ il vice questore Pasquale Guaglione a riconoscerle rispondendo agli interrogatori. 

L’inchiesta, portata coraggiosamente a termine dal giornalista inglese, Mark Covell, vittima stessa di quella notte, viene ribattezzata “London Investigation”. Nel film il ruolo della stampa ha il volto di Elio Germano, Luca che decide di non rimanere dietro la scrivania della redazione e va a sue spese, perché non inviato ufficiale, a seguire gli eventi dopo che la morte del 23enne Carlo Giuliani aveva catalizzato la massima attenzione della stampa tutta. 

Poi c’è Nick/Fabrizio Forgione un manager che si interessa di economia solidale, arrivato a Genova per seguire il seminario dell’economista Susan George il cui video compare spesso durante il film a sottolineare i contenuti e le contrapposizioni interni al G8. E infine Etienne e Cecile i due anarchici francesi protagonisti delle devastazioni di quei giorni che nella notte fatidica si salvano nascondendosi in un bar lì vicino. 

Le loro esistenze si incontrano tutte dando un quadro eterogeneo delle varie categorie coinvolte dove l’unica vincitrice resta la violenza. Il racconto di Vicari non fa ovviamente un excursus approfondito sulle iniziative che erano state indette in quei giorni (tra il 16 e il 21 luglio) come contestazione al vertice in corso dal Genoa Social Forum e per questo il suo leader, Agnoletto, ne ha fatto una critica netta denunciando le mancanze del film. 

Non lo fa perché il focus del film era un altro, dichiarato, e pretendere che tutti gli aspetti siano passati sotto l’ingrandimento del racconto cinematografico è utopico. Un regista sceglie un fatto e ne racconta i risvolti: una libera interpretazione anche se in questo caso per il fatto in sé poiché basato sugli atti giudiziari molto precisa e vicina alla realtà. 

Il regista ha affermato che la consegna della sceneggiatura all’attuale capo della Polizia Antonio Manganelli è stato un atto di trasparenza, come a voler dire:”non nascondiamo le nostre intenzioni a nessuno”. L’incontro richiesto dal produttore a Manganelli non è tuttavia seguito.  Resta però almeno curioso se non inquietante l’aneddoto sulla circolare interna emessa dal Ministero il 15 marzo e pubblicata nel sito del Sindacato lo scorso 3 aprile che esprimeva il divieto agli agenti di rilasciare interviste se non preventivamente autorizzate. (Documento dal sito COISP) 

ministero-interni-circolare

 

Il film è stato quasi interamente girato in Romania, a Bucarest, a causa dell’accoglienza ostile che ha incontrato in Italia, come dichiarò tempo fa il produttore Domenico Procacci visto che né Rai né Mediaset con cui Procacci collabora abitualmente hanno dato il loro appoggio. 

Nel film mancano i nomi dei vertici della Polizia coinvolti: ll capo dell’anticrimine Francesco Gratteri, l’ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, l’ex vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi (oggi all’Agenzia per le informazioni e la sicurezza interna), l’ex dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola (ora vicequestore vicario a Torino) l’ex vicecapo dello Sco Gilberto Caldarozzi, l’allora capo della Polizia Gianni de Gennaro (attuale direttore dell’Asi, l’organismo che coordina i servizi segreti dell’Aisi e dell’Aise) che la sentenza dello scorso giugno aveva condannato a un anno e 4 mesi di reclusione per istigazione alla falsa testimonianza, ribaltando l’assoluzione in primo grado. Poi l’esito finale a Novembre 2011 la cassazione assolve De Gennaro e Mortola “perché il fatto non sussiste”

Se è vero che le sentenze non si contestano è vero altresì che si possono giudicare come quanto meno insufficienti a spiegare, a far capire ed elaborare come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, secondo quanto dichiarato da Amnesty International sul massacro alla Diaz e le torture alla caserma Bolzaneto (come anche le note del film che scorrono ricordano) possa essere stata gestita come serie di episodi violenti di “poche mele marce” senza capo ma con titoli di coda ancora una volta non chiari.

Come non è tuttora chiara la vicenda del carabiniere Mario Placanica inizialmente accusato dell’omicidio Giuliani il cui ruolo se di vittima o carnefice rimane sfocato rendendo l’ingiustizia reale per tutti.

Aggiornamento Fatti al 3/01/14 : il 31 dicembre, sono stati arrestati gli ultimi due superpoliziotti:  Spartaco Mortola, ex capo della Digos genovese poi divenuto questore vicario di Torino, che dall’altro ieri dovrà scontare otto mesi di domiciliari nella propria abitazione.

L’altro è Giovanni Luperi, ex dirigente Ucigos nelle giornate della guerriglia, (“capo-analista dei servizi segreti e attualmente in pensione: per lui, della condanna definitiva a quattro anni, ne resta uno” da Il Secolo XIX).

INel pomeriggio del 30, invece, l’arresto era scattato anche per Francesco Gratteri, numero tre della polizia italiana prima della condanna, coordinatore d’indagini su attentati e latitanti. “È ora obbligato a un anno di domiciliari, potrà beneficiare come gli altri di alcune ore (2 o 4) di libertà durante il giorno e usare il telefono.” (da Il Secolo XIX)

oi c’è Nick/Fabrizio Forgione un manager che si interessa di economia solidale, arrivato a Genova per seguire il seminario dell’economista Susan George il cui video compare spesso durante il film a sottolineare i contenuti e le contrapposizioni interni al G8. E infine Etienne e Cecile i due anarchici francesi protagonisti delle devastazioni di quei giorni che nella notte fatidica si salvano nascondendosi in un bar lì vicino.
Le loro esistenze si incontrano tutte dando un quadro eterogeneo delle varie categorie coinvolte dove l’unica vincitrice resta la violenza. Il racconto di Vicari non fa ovviamente un excursus approfondito sulle iniziative che erano state indette in quei giorni (tra il 16 e il 21 luglio) come contestazione al vertice in corso dal Genoa Social Forum e per questo il suo leader, Agnoletto, ne ha fatto una critica netta denunciando le mancanze del film.
Non lo fa perché il focus del film era un altro, dichiarato, e pretendere che tutti gli aspetti siano passati sotto l’ingrandimento del racconto cinematografico è utopico. Un regista sceglie un fatto e ne racconta i risvolti: una libera interpretazione anche se in questo caso per il fatto in sé poiché basato sugli atti giudiziari molto precisa e vicina alla realtà.

– See more at: http://www.nottecriminale.it/piemonte/diaz-don-t-clean-up-this-blood.html#sthash.jUJlYTjf.dpuf

 

Oltre ai flash back narrativi, le immagini si incastrano e alternano con i filmati del tempo quelli riportati dai manifestanti stessi attraverso videocamere e telefonini, anche lì altro punto di vista il cui filtro personale però viene reso oggettivo dalle violenze che scorrono da entrambe le parti durante la manifestazione; allo stesso modo le violenze di una sola parte presso la Scuola Diaz nella “zona rossa” sono rese oggettive e obiettive perché uniche.
E’ solo grazie a questi filmati, infatti, se qualcuno dei responsabili nella realtà ha pagato. Come ad esempio quando nel 2002 tramite alcune foto e riprese viene svelata la reale provenienza delle molotov “trovate” durante il blitz. E’ il vice questore Pasquale Guaglione a riconoscerle rispondendo agli interrogatori.
L’inchiesta, portata coraggiosamente a termine dal giornalista inglese, Mark Covell, vittima stessa di quella notte, viene ribattezzata “London Investigation”. Nel film il ruolo della stampa ha il volto di Elio Germano, Luca che decide di non rimanere dietro la scrivania della redazione e va a sue spese, perché non inviato ufficiale, a seguire gli eventi dopo che la morte del 23enne Carlo Giuliani aveva catalizzato la massima attenzione della stampa tutta.

– See more at: http://www.nottecriminale.it/piemonte/diaz-don-t-clean-up-this-blood.html#sthash.jUJlYTjf.dpuf

Il cinema che scava nella memoria e tra le coscienze, dopo anni di silenzio interrotto da una serie di produzioni commerciali e alcune dimostrazioni d’autore, torna finalmente dirompente: film politici (come Romanzo di una Strage di Marco Tullio Giordana, uscito nelle sale da pochi giorni) o a prova di attualità come in Acab –All Cops are bastard, di cui vi abbiamo parlato qui a Notte Criminale.

 Generi diversi tra loro ma che scandagliano nei fatti torbidi di cronaca e di storia e la cui parola FINE ancora non appare dopo i titoli di coda infinita qual è quella della cronaca giudiziaria.
Diaz – Non pulite quel sangue, per la regia di Daniele Vicari e la produzione di Domenico Procacci – Fandango – già premiato al Festival di Berlino (erroneamente tradotto in Italia all’infinito – non pulire – e invece no la frase è un’esortazione corale a non rimuovere quella “macelleria” dalle coscienze, quel cumulo di sangue sparso).
E “macelleria messicana” è stata l’espressione precisa usata dal vice questore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma Michelangelo Fournier tra i 28 poliziotti imputati (su 400 circa che hanno fatto irruzione nelle scuole Diaz, Pertini e Pascoli di Genova mentre era in corso il G8), che in parte ammise le violenze ma che cercò di sminuire le responsabilità personali dei suoi uomini su ciò che è accaduto.

– See more at: http://www.nottecriminale.it/piemonte/diaz-don-t-clean-up-this-blood.html#sthash.jUJlYTjf.dpuf

Dopo anni di silenzio condito solo da qualche informazione giudiziaria tra l’omicidio Giuliani, le responsabilità dei manifestanti, e i poliziotti coinvolti nella “macelleria messicana”, esce il film sugli eventi che più hanno insanguinato il G8 2001. Il blitz alla Scuola Diaz e i soprusi alla caserma Bolzaneto avvenuti la notte del 21 luglio che ha prodotto 93 vittime. Una visione per stomaci forti ma necessaria – See more at: http://www.nottecriminale.it/piemonte/diaz-don-t-clean-up-this-blood.html#sthash.jUJlYTjf.dpuf
Dopo anni di silenzio condito solo da qualche informazione giudiziaria tra l’omicidio Giuliani, le responsabilità dei manifestanti, e i poliziotti coinvolti nella “macelleria messicana”, esce il film sugli eventi che più hanno insanguinato il G8 2001. Il blitz alla Scuola Diaz e i soprusi alla caserma Bolzaneto avvenuti la notte del 21 luglio che ha prodotto 93 vittime. Una visione per stomaci forti ma necessaria – See more at: http://www.nottecriminale.it/piemonte/diaz-don-t-clean-up-this-blood.html#sthash.jUJlYTjf.dpuf
Dopo anni di silenzio condito solo da qualche informazione giudiziaria tra l’omicidio Giuliani, le responsabilità dei manifestanti, e i poliziotti coinvolti nella “macelleria messicana”, esce il film sugli eventi che più hanno insanguinato il G8 2001. Il blitz alla Scuola Diaz e i soprusi alla caserma Bolzaneto avvenuti la notte del 21 luglio che ha prodotto 93 vittime. Una visione per stomaci forti ma necessaria – See more at: http://www.nottecriminale.it/piemonte/diaz-don-t-clean-up-this-blood.html#sthash.jUJlYTjf.dpuf

“La mafia non lascia tempo”

L’articolo originale è apparso qui  (di Simona Zecchi)

In un libro della giornalista Anna Vinci il percorso del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, dal “combinamento” alla dissociazione. Nostra intervista con il “pentito”.

Nel libro “La mafia non lascia tempo” di Anna Vinci  (Rizzoli, luglio 2013 – 208 pagg. € 15,00) la storia di Gaspare Mutolo si legge come un romanzo, che romanzo non è:  veloce,  vibrante e allo stesso tempo complesso come i fatti che lo riguardano. Sin dalle prime righe sulla sua “educazione” criminale (da ruba-macchine a mafioso alle dipendenze del capo-mandamento Rosario Riccobono) arrivando alla dissociazione nel 1992,  è istintivo  vedere in questo percorso a ostacoli verso la gerarchia criminale organizzata la storia di una formazione al contrario.

E’ appunto dal prologo che parte tutto “Mi dissocio formalmente  dall’organizzazione Cosa Nostra, alla quale  io sono appartenuto (…)” mentre il racconto personale all’interno della compagine mafiosa, da soldato di un certo rilievo, prende corpo passando per i traffici da lui gestiti, gli ammazzamenti, il contatto con un presunto agente segreto che poi tentò di depistare un’indagine di Falcone, la rete dei contatti acquisiti fuori e dentro il carcere,  la strategia  con la quale immancabilmente uomini “insospettabili” vengono a patti con la mafia: un sistema a sé che allo stesso tempo conferma l’affaire più alto della trattativa stato-mafia il cui processo è tutt’ora in corso (qualche editorialista, e non sono pochi, ancora la definisce presunta, fatto anomalo di per sé poiché al di là degli eventi ormai storici confermati dentro e fuori le inchieste giudiziarie, ci sono sempre le motivazioni della sentenza di Firenze rese pubbliche a marzo 2012 che fanno fede : «Venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des». «L’iniziativa che» – precisa la motivazione alla sentenza – «fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia» ) La sentenza ha riconosciuto colpevole il boss Francesco Tagliavia.

Vi è una parte del racconto della dissociazione che lo riguarda e che è solo sfiorata dal libro nel capitolo “La Dia è nata con me” che abbiamo approfondito direttamente con Mutolo: l’esperienza negli Stati Uniti come testimone nel processo contro John Gambino, famiglia quella dei Gambino la cui storia è legata a quella degli altri “scappati”, Spatola e Inzerillo.

E’ qui che Mutolo riapre  il cassetto dei ricordi fondanti della sua dissociazione:<< Nel 1981 (da poco morti a poca distanza l’uno dall’altro Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo) l’allora capo della mafia italo americana, Paul Castellano,  manda in avanscoperta a Palermo Gambino per capire come potevano muoversi le famiglie “incriminate” verso i corleonesi. Fa da tramite un mafioso del luogo Rosario Savio, poco noto in quel tempo e lo fa incontrare con Rosario Riccobono, capo mandamento della zona Partanna-Mondello e quindi mio capo>>. <> – continua Mutolo – <>>. Mutolo da questo flash back ritorna poi ai giorni della sua ufficiale collaborazione nata a cavallo tra il 1991 e il 1992 e all’incontro con lo stesso Gambino  l’anno successivo, mentre il giudice sferzante gli chiedeva prova di quello che sapeva sul conto dell’imputato (la storia dei Gambino è legata a doppio filo con il sequestro di Michele Sindona altro ulteriore tassello di questa storia lunga quarant’anni e mai terminata dei rapporti che legano da sempre cosa nostra americana con quella italiana). <>. Il sistema giudiziario americano – prosegue –  soprattutto in questi casi è molto differente da quello italiano e il giudice non ha avuto dubbi soprattutto dopo la reazione in aula avuta dal Gambino al cospetto del suo avvocato a cui ordinò di rompere gli occhiali che avevo usato – come richiesto dalla Corte – per il riconoscimento.>> Mutolo non resta protetto negli Usa come gli fu proposto a suo tempo da Gianni De Gennaro, vuole tornare nel suo Paese a combattere quella mafia  che non riconosceva più e dalla quale si è sempre più affrancato, così fa sin dal suo primo incontro con Falcone, e subito dopo con Paolo Borsellino (verbalizzati e non verbalizzati in un primo tempo, a seconda dell’importanza delle rivelazioni da fare, anche in questo Borsellino seguiva un metodo specifico: prima i fatti riguardanti i vari mandamenti, i reati nei quali il collaboratore è coinvolto via via fino alle interessenze politiche alle complicità – da un’intervista precedente dell’autrice dell’articolo a Pippo Giordano ex ispettore Dia operativo al fianco ai giudici Falcone e Borsellino in quegli anni).

Colpisce il suo racconto per la precisione che rimanda alla parte giudiziaria, un supporto a suffragio della sua testimonianza, una conditio di cui egli stesso forse non può più  fare a meno, come un metodo appreso affianco degli inquirenti in questi anni. La stessa precisione mostrata nell’ultima intervista il 29 luglio a viso coperto su RaiUno nel programma “Unomattina” per la presentazione del libro nella quale Mutolo commenta l’assoluzione di Mario Mori per il favoreggiamento alla latitanza di Provenzano così: <>. Presenti in trasmissione anche il giornalista Giovanni Fasanella autore insieme a Mori del libro “Ad Alto Rischio” (Mondadori), Anna Vinci e l’ex ministro Scotti  – esautorato in quegli anni tesissimi dalla carica al Viminale per essere sostituito da Nicola Mancino (oggi accusato di falsa testimonianza nel processo Stato Mafia).  Una precisione che molti giornalisti dovrebbero invidiargli.

S.Z.  Ritorno al suo penultimo incontro con Paolo Borsellino avvenuto il 1° luglio, il giorno in cui come ha raccontato già, nel corso del colloquio fu chiamato dal Viminale. Lei conferma che Borsellino le fece proprio il nome di Nicola Mancino?

G.M. Borsellino mi disse: ”Mi ha chiamato il ministro”. Nella deposizione Mutolo riportò anche gli altri due nomi riferiti a quell’incontro, mentre aspettava negli uffici che Borsellino tornasse per proseguire il colloquio, quelli dell’ex capo della Polizia Parisi e Bruno Contrada, che ha oggi scontato la sua pena.

S. Z. Lei parla nel libro del famoso papello: secondo lei è plausibile che Mancino avesse un ruolo da mediatore come qualche collaboratore ha già delineato?

G. M. In quel periodo sapevo da Falcone che un paio dii ministri, in particolare Martelli e Scotti, avevano veramente intenzione di combattere la mafia. Si erano già affrontati dei provvedimenti importanti l’indirizzo approntato era quello giusto, quando in modo repentino e senza troppe motivazioni c’è stato quel cambio fra Scotti e Mancino certo ne ho tratto delle mie conclusioni.

S.Z. Secondo lei Borsellino sapeva della trattativa in corso tra pezzi dello Stato e Cosa nostra?

G.M. Non ne abbiamo mai parlato in modo diretto ma era evidente che lo sapesse da come ormai agiva e poi in quegli uffici, consegnati ai pochi metri quadri in cui avvenivano i nostri incontri, io sentivo alcuni passaggi di conversazioni anche toni e parole forti che potevano far intendere  cosa stava succedendo e il clima che tutti stavamo vivendo. Certo che Borsellino sapeva.

Se il tempo passato accanto a Riina non ha toccato tanto profondamente la coscienza di un uomo che nonostante tutto fa un salto al di là della barricata  e collabora in modo cosi preciso e serio con lo Stato allora viene spontaneo pensare che sia stato lui a non aver lasciato altro tempo alla Mafia e non viceversa. Per questo il lavoro svolto sui collaboratori e l’importanza che il giudice Falcone gli ha sempre dato, nel loro ruolo a sostegno della lotta contro la criminalità organizzata, è fondamentale. La mafia è un fenomeno umano, diceva il giudice Falcone, e quindi come tale può cessare, aveva ragione.   Certo ci vuole la piena volontà dello Stato.

Un ringraziamento speciale ad Anna Vinci.

Strage di Ustica: 33 anni di verità stonate e il peso di certe morti collaterali

L’articolo originale si trova qui (di Simona Zecchi)

La Voce di New York intervista il giornalista Fabrizio Colarieti che si occupa della strage di Ustica da oltre un decennio e che insieme al collega Daniele Biacchessi ha anche realizzato un sito storico-giornalistico www.stragi80.it completo di documenti e storie edite e inedite della tragedia di Ustica. Un mistero che porta con sé il peso di 81 morti e probabilmente qualcuna in più.

“Sono passati 33 anni”… sembra sempre (o quasi, a seconda dell’anno esatto) l’incipit di molte storie italiane questo, a segnare la verità che passa mentre il tempo cancella e confonde i fatti, le prove si perdono in rivoli o in archivi e qualcuno muore. Il 27 giugno del 1980 la partenza del velivolo Douglas DC-9, I-TIGI  è prevista per le 18.15 ma il primo messaggio a scandire una storia diversa per  i passeggeri  (77 più 4 membri dell’equipaggio) della compagnia Itavia è quello di un ritardo:<>. Dopo due ore l’aereo parte verso Palermo ma l’ultimo messaggio che lo riguarda prima della perdita di ogni sua traccia tra i cieli estivi che sorvolano l’isola di Ponza , quello del comandante Domenico Gatti  delle 20.50, racconta altro:<< Signore e signori buonasera (…) Stiamo procedendo a una quota di 7500 metri e circa due minuti fa abbiamo lasciato l’Isola di Ponza per volare in linea retta su Palermo (…) Il tempo, procedendo verso sud è in miglioramento (…) La nostra rotta dopo il decollo è stata, da Bologna poi Firenze, abbiamo lasciato Roma alla nostra destra, poi la cittadina di Latina verso Ponza. La nostra velocità al suolo è di circa 800 Km/h. Grazie.>> . Dopo 9 minuti, il Dc-9 rimane inghiottito in un punto, il Punto Condor, tra le nuvole per  sprofondare poi  nelle acque. (Il punto preciso è qui ).

Così raccontano i due giornalisti nel sito Stragi80 e la notizia finalmente scuote gli animi e le penne dei media (radio, TV e giornali) che la riprendono in modo virale dopo il torpore degli ultimi tempi. A scuotere tutto un po’ era stato già il giudizio in Cassazione di un tribunale civile a gennaio di quest’anno: “non fu una bomba ma un missile” a far precipitare il Dc9 “e i radar civili e militari non vigilarono come avrebbero dovuto sui cieli italiani.” La cassazione ha condannato i Ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire i familiari di alcune vittime che intentarono la causa.

Il messaggio di Gatti è importante perché risuona come il controcanto di verità troppo spesso annunciate tutte già nelle ipotesi sempre tenute in conto (collisione con velivolo militare, cedimento strutturale, bomba a bordo e la stessa ipotesi del missile) e segna un punto fondamentale: tono e contenuto del messaggio ai passeggeri, di cui 13 bambini, segnalavano se non la perfetta situazione del volo almeno un’atmosfera serena dove nessuna tragedia
sembrava essere in corso.

Mentre si attendono sviluppi anche da parte penale per la nuova inchiesta che ha portato alla richiesta di una  nuova rogatoria alla Francia con successiva risposta,   e che fa pensare ai magistrati che se ne occupano a un vero e proprio assetto di guerra in corso quel 27 giugno 1980 (lo rivela Andrea Purgatori il 13 aprile scorso sull’Huffington Post Italia (qui) abbiamo intervistato Fabrizio Colarieti sull’ultimo libro da lui scritto per  le edizioni Adagio Ebook   in uscita oggi 27 giugno:  “Vittime Collaterali – I suicidi sospetti della strage di Ustica”.

S.Z.: Tu hai scelto delle 13 morti che si ritengono in qualche modo collegate alla strage, due storie specifiche  le cui dinamiche, come ha scritto il giudice Rosario  Priore,  presentano forti analogie. Cosa differisce queste storie dalle altre, perché queste due morti?

F.C.: Innanzitutto è lo stesso Priore a nutrire dei fortissimi dubbi in particolare sulla morte diMario Alberto Dettori e  Franco Parisi, rispetto agli altri 11 casi finiti tra le carte dell’inchiesta di Ustica, come “sospetti”. Penso le stesse cose, perché entrambi i militari di cui narro le storie ebbero ruoli molto importanti, la notte di Ustica e il giorno della presunta caduta del Mig libico sulla Sila (18 luglio 1980). Considero Dettori e Parisi gli anelli deboli di una catena che doveva essere perfetta e infallibile nel garantire il silenzio e il segreto sui fatti di quella notte, ancora oggi poco chiari. Sono due storie emblematiche, simili tra loro, narrano il dramma di due persone schiacciate da un grande peso. Priore scrive che “venuti a conoscenza di fatti diversi dalle ricostruzioni ufficiali, rivelano la loro conoscenza in ambiti strettissimi, ma non al punto tale da non essere percepita da ambienti che li stringono od osteggiano anche in maniera talmente pesante da restarne soffocati”. Non ci sono le prove che furono eliminati, ma i loro gesti, se suicidi, furono comunque determinati da un malessere psichico molto profondo e certamente connesso a quanto era avvenuto quella sera. Le somiglianze tra i due casi, come sottolinea lo stesso Priore, sono impressionanti, sia nelle cause, sia nella decisione che, infine, nei sospetti.

S.Z.:  Quali i tasselli che riguardano i ruoli rispettivi di Dettori e Parisi quel 27 giugno che potrebbero essere stati decisivi nella ricostruzione di ciò che è successo quella sera?

F.C.: Dettori e Parisi erano due radaristi in servizio in due centri radar dell’Aeronautica molto coinvolti nell’affaire Ustica. Dettori era a Poggio Ballone, quindi in Toscana, a ridosso della zona dell’Appennino Tosco-Emiliano dove, secondo l’inchiesta condotta da Priore, la rotta del Dc9 fu disturbata e poi invasa da un velivolo che sfruttò l’ ”ombra” del volo Itavia per attraversare indisturbato lo stivale. Parisi era a Otranto, il 18 luglio, in servizio la mattina in cui, secondo l’Aeronautica, il Mig libico bucò il nostro spazio aereo finendo sulla Sila. Come scrivo nel libro, a Dettori e Parisi, in vita e in morte, è toccato lo stesso destino. Erano avieri, erano entrambi marescialli, lavoravano ai radar ed erano – tutti e due – in servizio quando l’affaire Ustica montava. Dettori – con alta probabilità – la sera del 27 giugno 1980, mentre il Dc9 finiva nel Tirreno, era al radar della base di Poggio Ballone. Parisi – con certezza – il successivo 18 luglio, il mattino in cui secondo l’Aeronautica quel MiG libico cadde sulla Sila, era al radar della base di Otranto. Erano, perciò, testimoni oculari e in servizio con ruoli delicatissimi. Testi diretti, non passibili di smentite. Dettori, rientrando a casa, confessa ai familiari che quella notte era successo qualcosa di molto grave; Parisi, di fronte a Priore, si mostra nervoso, accenna a delle strane manovre fatte alla consolle del radar per mascherare qualcosa, subisce pressioni e alla fine non parla, si chiude in sé.

S.Z.: Su Dettori si è giunti sinora almeno alla certezza che quella sera era di turno al centro radar? (Nel corso della storia giudiziaria tra le varie sparizioni rilevate anche il rapporto di servizio dove si evinceva la sua presenza come radarista il 27 giugno)  

F.C.: Dettori la notte del 27 giugno 1980 era sicuramente in servizio e con ogni probabilità era seduto proprio davanti alla sua consolle radar, le indagini hanno consentito di accertare che questa circostanza fu negata per anni dall’Aeronautica con motivazioni grottesche e davvero poco credibili.

S.Z.: La storia di Parisi sembra meno nitida, eppure ha lasciato un biglietto a firma del suo gesto: il giudice Priore cosa dice sulle pressioni che gli sarebbero state fatte? 

F.C.: Priore registra che il clima intorno agli interrogatori di Parisi era tesissimo e che sicuramente l’ambiente e le pressioni dei suoi commilitoni lo condizionarono molto. Priore scrive: “per tutto quello che era venuto a sapere, che era capitato sotto i suoi occhi o aveva percepito nei comportamenti dei suoi compagni di sala operativa, e per il fatto di non poter riferire, probabilmente per i contrasti tra il senso del dovere e imposti spiriti di corpo, egli, con tutta probabilità, era caduto in depressione, come attestano anche le certificazioni mediche”.

S.Z.: Quali sono stati negli anni le iniziative di governo più convincenti che hanno tentato di arrivare alla verità cercando collaborazioni con la Francia e gli altri Paesi coinvolti? Nel libro citi Amato, hai mai intervistato Cossiga al riguardo?

F.C.: Cossiga non l’ho mai intervistato, eccetto uno scambio epistolare quando era già malato. Sicuramente tra le iniziative da ricordare le sollecitazioni di Amato, verso Stati Uniti e Francia, ma l’impegno più concreto fu quello di Prodi e Veltroni nel 1996 quando fu chiesto alla Nato di collaborare fornendo, come fece, una parte delle sigle degli aerei militari che erano in volo quella sera. Non fu una risposta esaustiva, ma certamente un tassello verso la verità e la conferma che attorno al Dc9 c’erano altri aerei, certamente militari. La Francia è stata sollecitata a rispondere alle domande della nostra magistratura anche recentemente e delle risposte sappiamo che le ha fornite. La Procura di Roma sta lavorando molto seriamente al caso Ustica, ma anche con la massima riservatezza. Credo che la giustizia non possa fare più di quello che ha fatto finora, il passo successivo tocca alla diplomazia, ai governi. Conosciamo il contesto e le bandierine, manca la confessione, in una parola: il perché di tutto questo.

Colarieti ha iniziato a occuparsi di Ustica nel 1998, quando Priore stava concludendo la sua inchiesta. Ha  seguito i primi processi e i successivi, sia penali che civili, ha raccolto nel sito stragi80.it gli atti ufficiali dell’inchiesta (oltre 600mila pagine che fanno parte anche di un database fornito all’autorità giudiziaria), ha scritto il primo libro sul processo nel 2002 “Punto Condor Ustica: Il processo” edizioni Pendragon con Biacchessi e “Vittime collaterali” è il terzo libro che dedica al caso Ustica.

Fabrizio Colarieti

Tina Anselmi, il pubblico e il privato

La versione originale dell’articolo è apparsa sul quotidiano americano La Voce di New York qui (di Simona Zecchi)

Il 2 agosto (poi cambiato in 1° agosto ndr) prossimo Rai3 per la sezione Doc3 trasmetterà il documentario Tina Anselmi – Una Vita per la democrazia a cura di Anna Vinci, scrittrice e saggista, e prodotto dalle Produzioni Ila Palma (Palermo). Per gentile concessione di Rai3, ne riproduciamo qui sopra un estratto a mo’ di sintesi che accompagna il nostro articolo. La Commissione d’inchiesta sulla loggia massonica P2; la vita fra politica e famiglia; la scelta partigiana nel rispetto del partito cui aderì, la DC, e l’impegno laico all’interno dello stesso nel rispetto del ruolo che ricopriva; i diritti delle donne: il privato e il pubblico dal volto unico.

L’estratto del video contenuto nel DVD Rai trasmesso il 1° agosto (invece che il 2) 2013 su raiDoc3 è di proprietà della Rai. Produzione Ila Palma. E’ disponibile nel sito originale in cui è apparso la prima volta l’articolo (ndr.)

“La democrazia è un bene delicato, fragile, deperibile una pianta che attecchisce solo in certi terreni, precedentemente concimati …” citare Tina Anselmi è come parafrasare in un certo senso la Costituzione italiana troppo spesso oggetto di vilipendi verbali e non solo. Tina Anselmi, che ha compiuto 86 anni lo scorso 25 marzo ha curato quel fiore fino all’ultimo dei suoi impegni, fino ai primi anni 90 quando, ancora deputata, fu eletta nella circoscrizione Venezia-Treviso. Da allora il suo impegno è proseguito a livello sociale e intellettuale tra prefazioni, libri da lei stessa curati o in collaborazione con altri: sempre consapevole della responsabilità etica e civile che l’accompagnava. Soprattutto dal 2002 in poi, in stretta collaborazione con la saggista Anna Vinci che con lei ha scritto e curato a quattro mani Storia di una passione politica (Sperling & Kupfer, Milano 2006) e il più recente La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi (Chiarelettere, 2011).

Incontriamo Anna Vinci per parlare di quest’ultimo libro e del documentario che ha realizzato sulla Anselmi e il suo mondo privato. Il documentario presentato a Roma lo scorso 16 aprile presso la libreria Arion del Palazzo delle Esposizioni (appuntamento che si ripeterà a Castelfranco Veneto, la sua terra d’origine, il 21 giugno presso il Teatro Accademico) sarà trasmesso da Rai3Doc3. In un tempo di tagli di trasmissioni d’approfondimento importanti come La Storia siamo noi e Blu Notte di Carlo Lucarelli, non è poco.

Il documentario, spiega Anna, è il corollario, il cerchio che si chiude su un percorso di vita pubblica e privata dopo i primi due libri scritti insieme, soprattutto il primo del 2006 in cui le fasi della vita politica di Tina Anselmi vengono messe sotto la lente d’ingrandimento a segnare anche i passi più importanti portati avanti nel nostro Paese grazie al suo lavoro: la legge sulle pari opportunità, la riforma sanitaria, il diritto di famiglia (insieme a Nilde Iotti, presidente della camera dei Deputati nel ‘79) i diritti delle donne e anche la legge sull’aborto: “Personalmente e in linea con la maggioranza del suo partito era contro, ma come Ministro della Sanità era consapevole di vivere in uno stato laico quindi la firmò di fatto segnando un passo importante nei diritti per le donne; coglieva l’influenza che la Chiesa del potere esercitava, una Chiesa che non ha mai smesso di volere peccatori. Riconosceva l’importanza che certi diritti avevano (e hanno) in uno stato laico mettendo da parte le proprie visioni personali, un senso della disciplina che la contraddistingueva nel pubblico e nel privato”.

Poi venne la volta de I Diari segreti… la cui stesura durò due anni di lavoro intensi per i quali la Vinci si è avvalsa anche della collaborazione di due giovani storici per la parte relativa alla raccolta dei fatti giudiziari e di cronaca: “Un lavoro impegnativo sotto questo punto di vista e in merito ai collegamenti da rilevare con la parte narrativa da me adottata nella stesura dei diari. Anche qui dovevo comunque fungere da guida e indicare su quali limiti impostare la stesura dei fatti di cronaca”. Ottocento foglietti sparsi come post-it (o post si direbbe oggi): pensieri, fatti, incontri, decisioni, note di disappunto, nomi… Tutti a raccontare un filo unico sull’esperienza più delicata del lavoro della Anselmi: la presidenza della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2 (i cui lavori ebbero inizio nel 1981 e terminarono nell’85).

“Fu possibile lavorarci insieme fino al 2007 — racconta Anna — poi la sua malattia divenne via via più aggressiva e poco prima che si ammalasse seriamente mi affidò tutto il materiale insieme alla libertà di scelta nella selezione; un grande atto di fiducia consolidatosi negli anni, per cui col tempo ebbi l’onore di diventare praticamente l’unica persona al suo fianco in un rapporto profondamente umano e di lavoro”.

Un lavoro più narrativo che giornalistico, come conferma la stessa autrice, nel segno di quello che è l’ impronta professionale più significativa di Anna. “Una romanziera, una saggista non mi sento una giornalista” sebbene l’intero corpus sia ben composto di tutti quanti gli elementi: la narrazione a rendere fluida la lettura, senza inventare o interpretare, l’appendice di contributi personali e lavorativi dei personaggi che via via Anna incontra nella stesura del libro, dal giudice Turone – che insieme a Gherardo Colombo si occupò della prima inchiesta giudiziaria – al segretario della Commissione sulla P2, Giovanni Di Ciommo. Fino allo stesso Licio Gelli, che si incontra nel libro ovviamente non solo perché protagonista indiscusso del caso ma anche nel carteggio epistolare: come la diffida inviata alla stessa Anselmi dopo la pubblicazione della relazione finale sulla Commissione, o la lettera destinata all’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel dicembre dell’85. All’apparenza ossequiosa ma, soprattutto alla fine, condita da minacce non troppo velate non alla persona bensì al Paese. Infine, le note a piè di pagina a informare dei fatti spesso persi nei colori della cronaca e tra le pieghe degli anni.

Nel documentario, la parte qui scelta a sintesi del lavoro tutto, si vede Tina Anselmi che lancia un messaggio alle giovani generazioni parlando soprattutto alle donne: “Dico sempre alle mie nipotine: attente che nessuna vittoria è irreversibile (…) se viene meno la nostra vigilanza su quel che vive il Paese, su quel che c’è nelle istituzioni (…) le nostre vittorie non resteranno permanenti, non possiamo abdicare”.

È la stessa caparbietà che l’ha guidata nel presiedere la Commissione sulla P2 annotando ambigui avvertimenti, o il continuo via vai nel suo ufficio o quello del segretario dove tutti indicavano tutto magari in un gioco di ricatti o di coperture. La caparbietà e l’intelligenza nel saper distinguere i fatti dagli spergiuri nonostante l’offesa e la beffa subite nel 2004, quando nel citarla nel Dizionario biografico delle donne italiane curato dal Ministero delle Pari Opportunità, ai tempi in cui ministro era Stefania Prestigiacomo, la curatrice Pialuisa Bianco scriveva: “La presidenza della Commissione (…) cambiò il suo destino, quanto il moralismo giacobino, la vergogna del potere, l’istinto punitivo (…) che furono la contraddittoria filosofia inquirente di tutte le commissioni parlamentari…” e via sbeffeggiando. Il libro I Diari segreti ha un capitolo significativoGli smemorati dove le testimonianze di politici, faccendieri e militari subiscono un attento esame con appunti che poi li smentiscono. È un tema ricorrente questo di certe storie italiane: lo vediamo oggi con le tardive testimonianze, dopo più di 18 anni dalle stragi che hanno sconvolto il Paese, alla più dolente delle inchieste giudiziarie sulla trattativa Stato-mafia spesso condite da retromarce poco credibili o “non ricordo” e contraddizioni.

Il documentario Tina Anselmi – Una vita per la democrazia dunque giunge a conclusione di un percorso della donna e del politico insieme, una sorta di addio. E infatti la prossima presentazione a Castelfranco Veneto è come fosse un ritorno alle origini, un saluto alla sua terra e insieme un ritorno alla democrazia dopo le recenti elezioni amministrative. La commistione di questo lavoro si tiene fra pubblico e privato, in cui protagonisti sono soprattutto i suoi familiari, e in particolar modo come voce narrante la nipote Valentina Magrin, giovane giornalista trasferitasi a Roma (forse un po’ alla ricerca della zia come non la conosceva) che oltre a lasciarci un ricordo privato (la foto qui sotto che la ritrae bambina mentre le è seduta in braccio, concessa in esclusiva solo per La Voce di New York) ci restituisce anche l’esatta sintesi della normalità che caratterizzava la sua vita, una normalità che oggi, come ieri, rappresenta l’eccezione.

Le verità sulla morte di Pasolini sul nuovo numero de “I quaderni de L’Ora”

Le verità sulla morte di Pasolini sul nuovo numero de “I quaderni de L’Ora”

di Giorgia Cardinaletti pubblicato su Il Messaggero on line il 16/02/13

Tra gli autori degli undici capitoli del libro, Walter Veltroni, Gianni Borgna (ex assessore alla Cultura del comune di Roma), Carla Benedetti, docente di Letteratura italiana contemporanea dell’Università di Pisa

ROMA – La verità sulla morte di Pasolini. È questo l’obiettivo del nuovo numero de “I Quaderni de L’Ora” (editrice la Palma), rivista di approfondimento che riunisce tanti dei giornalisti dello storico quotidiano di Palermo “L’Ora”, dedicato interamente alla morte dell’intellettuale.

«La nostra è un’avventura editoriale – spiega Giuseppe Lo Bianco, direttore della rivista – in cui abbiamo voluto fare il punto delle indagini, raccogliere le esperienze di autori e colleghi che si sono occupati del caso con l’obiettivo di offrire un contributo di idee e di connessioni logiche volte alla scoperta della verità».

Cosa c’entra l’omicidio Pasolini con la morte di Mattei e del giornalista de “L’Ora” Mauro De Mauro? Chi era Graziano Verzotto e perché la sua figura è centrale nell’inchiesta? Cosa è successo davvero quella notte fra il 1 e il 2 novembre del 1975 quando il corpo di Pier Paolo Pasolini fu trovato in una pozza di polvere e sangue all’Idroscalo di Ostia? Walter Veltroni, Gianni Borgna, ex assessore alla Cultura del comune di Roma, Carla Benedetti, docente di Letteratura italiana contemporanea dell’Università di Pisa, lo storico Giuseppe Casarrubea, i giornalisti Walter Rizzo, Rita Di Giovacchino, Giuseppe Pipitone Mario Dondero, Martina Di Matteo, Simona Zecchi. E ancora Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, autori di “Profondo Nero” (Chiarelettere 2009) nel quale si delinea un filo unico tra la scomparsa di De Mauro, Mattei e Pasolini.

Questi gli autori degli undici capitoli del quaderno monografico “Pasolini profondo nero”. Quella di Zecchi e Di Matteo è un’inchiesta inedita: «Abbiamo scoperto – spiega Zecchi – che esiste una parte di incartamenti mai fatti rinvenire prima nascosti in stanze segrete i quali ricondurrebbero alla nostra pista: ossia l’esistenza di un’altra auto sul luogo del delitto quella notte e quindi la conferma che a uccidere Pasolini non fu un minorenne ma un gruppo folto di persone organizzate».

A commentare l’ottavo numero della rivista, durante la presentazione alla libreria Notebook dell’Auditorium Parco della Musica, anche Andrea Purgatori, giornalista e sceneggiatore, autore del soggetto de “Il muro di gomma”, film di Marco Risi sulla strage di Ustica. «Dopo l’omicidio di Pasolini sono andato a parlare con gli amici di Pelosi – racconta – e ho costruito un documentario-inchiesta sul materiale trovato. Ricostruire la verità significa fare l’operazione contraria rispetto a chi cerca di slegare gli elementi limitando, così facendo, il peso delle responsabilità».

Presente in sala anche Stefano Maccioni, avvocato di Guido Mazzon, cugino di Pasolini. È stato lui insieme alla criminologa Simona Ruffini (entrambi autori, insieme a Walter Rizzo, di “Nessuna pietà per Pasolini”, Editori Riuniti) a contribuire alla riapertura delle indagini nel 2009: «Ci siamo mossi cercando di applicare le moderne tecniche di investigazione. Nel 2010 sono emersi degli elementi importanti, mi auguro che il lavoro svolto dalla Procura porti a modificare le motivazioni della sentenza che condannò Pelosi». Tra il pubblico anche Silvio Parrello, un ex ragazzo della borgata di Donna Olimpia che conobbe Pasolini, la cui testimonianza ha portato a far emergere due carrozzieri, uno dei quali avrebbe riparato un’auto uguale a quella di Pasolini che riportava tracce di sangue.

 

 

Daniel Estulin e le oligarchie che governano il mondo

Articolo pubblicato il 28/10/12 su Periodico Italiano mag

«Questo è un Impero con la i maiuscola, ma non è come l’Impero russo o quello inglese o quello nordamericano. Questo è un Impero invisibile, che si nasconde agli occhi della maggior parte delle persone anche se la sua attività ha un impatto tremendo sulla nostra vita di tutti i giorni»

Daniel Estulin è un giornalista investigativo russo, scrittore ed ex collaboratore del Kgb. Intervistarlo è come entrare nei gangli dei secoli che hanno costruito i mattoni della storia. E’ giovane ma allo stesso tempo con un’esperienza di anni alle spalle che, nella vita intera ordinaria di ognuno, non sarebbe immaginabile ritrovare.

E’ certo un punto di vista, seppure basato sui fatti da lui riscontrati e può non essere condivisibile, ma resta un racconto storico-politico avvincente in cui forse anche noi italiani potremmo riconoscere i tratti significativi che hanno minato il nostro paese dagli anni 69-70 in poi.

Estulin, utilizzando metodi simili allo spionaggio da Guerra Fredda e rischiando più volte la vita è diventato una delle voci più rappresentative dell’informazione senza censure. Intervistato in tutto il mondo, protagonista di trasmissioni radiofoniche, Estulin tiene conferenze sulle società segrete e sull’intelligence mondiale.

P.I.: Qual è il collegamento fra il tuo libro precedente “Il Club Bilderberg” (pubblicato la prima volta nel 2005 ora con Arianna Editrice nella nuova edizione 2011) e “L’Impero Invisibile (Castelvecchi Rex Editore, 2012, pagg. 384) ?

Bhe, innanzitutto, bisogna intendersi davvero su cosa sia il Gruppo Bilderberg e sgombrare il campo da un assunto: ovvero che sia una sorta di teoria del complotto, così non è. E’ una realtà cospiratoria questo si. Molti danno valori e significati diversi da ciò che il Bilderberg Club rappresenta veramente. Intanto è stato un fattore molto importante interno alle strutture oligarchiche nel periodo della guerra fredda. Il gruppo Bilderberg ha rappresentato un vero e proprio strumento attraverso il quale interessi oligarchici finanziari privati sono riusciti ad imporre le loro politiche su ciò che conosciamo come le sovranità nazionali. Ogni volta che si riuniscono i membri del Club Bilderberg si apprestano a creare ciò che loro stessi chiamano l’Aristocazia dello Scopo in modo che le élites europee e del Nord America possano governare il pianeta nel migliore dei modi. In altre parole, si tratta della creazione di una rete globale di cartelli giganti più potenti di qualsiasi altra nazione sulla terra destinata a controllare le necessità di vita dell’intera umanità.

Con “L’Impero Invisibile” ho voluto indagare oltre questo tipo di organizzazioni private (che comprendono anche il Bilderberg) sino ad arrivare ad altri livelli di controllo sovranazionale, dimostrando come governi, organizzazioni criminali, mafie, banche e terroristi siano uniti e spesso anche si combattano l’uno contro l’altro per ottenere il profitto. Ma al di là di questo, il libro ci mostra anche come tutto ciò che abbiamo imparato a scuola e le informazioni che ci propinano in TV siano entrambi figli di una enorme spudorata bugia. .

P.I.: Immagino come sia cambiata la tua vita all’indomani della scoperta sul Club Bilderberg, e soprattutto dalla pubblicazione dei libri, in termini di sicurezza e vita quotidiana. Come riesci a conciliare gli impegni pubblici con quest’aspetto?

Certo non posso qui parlare nel dettaglio della mia sicurezza, ma ovviamente posso affermare che la mia vita è cambiata. Quando vendi 6 milioni di libri tradotti in oltre 45 lingue e tutti da (Fidel Castro passando per lo staff più alto in grado del governo venezuelano, via fino al Parlamento Europeo e alle grandi conferenze mondiali sulla geopolitica che hanno richiesto la mia presenza) per quanto io voglia rimanere anonimo, la cosa è alquanto difficile ormai…

Per quanto riguarda me stesso, la mia vita, invece, c’è una grande differenza ad esempio fra me e Roberto Saviano (a parte il fatto che sono molto più bello!): sono stato un ufficiale del contro spionaggio nel KGB, è facile farmi fuori perché non mi nascondo; allo stesso tempo proprio in virtù di quell’esperienza è altrettanto facile per me fare fuori loro. E mi riferisco a chiunque.

 P.I.: Il libro “L’Impero Invisibile” racconta ai lettori come i gruppi economici internazionali controllino e si spartiscano il potere attraverso molteplici azioni criminali, in modo da poter mantenere un potere, appunto un impero tutto per sé. Per quanto questo sia terribile e terribili i suoi effetti, non è anche vero il fatto che le persone, i cittadini spesso per paura che le loro piccole certezze e la loro piccola sicurezza economica quando ne sono in possesso si sfaldi e non vogliano capirle recepirle queste cose?

Ciò che la gente comune, i cittadini non capiscono è che il Denaro non ha un valore intrinseco in sé per quanto lo vogliano venerare. Ciò che invece queste élite desiderano è un Impero. Troppa gente pensa che per ottenere un Impero siano necessari dei soldi. Il Denaro in realtà non è così determinante per lo sviluppo del Pianeta, in termini di benessere economico. Il valore di tutto non è espresso dunque dal denaro in sé, bensì esso rappresenta uno degli effetti relativi all’aumento o alla diminuzione del potenziale fisico della densità della popolazione dell’individuo in una società. Mi spiego meglio: il valore del denaro non si cela nello scambio individuale, bensì nella unità funzionale conosciuta come la dinamica di unificazione del processo sociale di una nazione. E’ in sostanza la mente umana che inficia su questo sviluppo. E’ il valore che si dà nel bene e nel male all’essere umano e alla sua capacità creativa. Ciò che ci separa dagli animali è la nostra abilità di scoprire i principi fisici universali. Ci permette di effettuare innovazioni che di conseguenza migliorano le vite delle persone. Lo sviluppo dell’umanità, lo sviluppo del potere dell’individuo e di una nazione dipendono insomma dalle scoperte scientifiche.

Abbiamo distrutto l’economia mondiale, l’Europa, l’Africa gli Stati Uniti e stiamo facendo del nostro meglio anche con l’Asia… vedi, l’economia reale ha a che fare con i poteri creativi della mente e le abilità che si sviluppano nello scoprire i principi universali della natura che possono migliorare la qualità della vita delle persone per Km quadro in una sfida contro la natura. Quindi poiché siamo 7 milioni di persone, a meno che non sviluppiamo del progresso andremo tutti all’”inferno”: abbiamo bisogno sempre più di scoperte che migliorino le nostre vite creando una tecnologia che sostenga una popolazione base di quest’entità.

P.I.: Come può la cosiddetta “teoria” della strategia della tensione internazionale, se si può definire così, paragonarsi a ciò che per oltre 40 anni è successo in Italia con la parallela strategia della tensione? I paesi che nel libro tu affermi stanno dietro a tutto (Francia, USA, Israele e Russia) hanno un piano strategico diretto, a seconda del paese di cui intendono cambiare la situazione politica ed economica?

Devi sapere che tutto l’apparato internazionale è gestito da Londra: l’epicentro insomma. La City è il ragno al centro della ragnatela. Sono loro che stanno orchestrando tutto. Ed è necessario che si capisca che ciò che è stato fatto con l’economia non è avvenuto per caso. Gli altri paesi le altre nazioni sono solo dei giocatori di una partita più grande, un gioco controllato da Londra. Le élites credono che ci siano troppe persone nel mondo che si debbano spartire la quantità di cibo e acqua, risorse che continuano a diminuire. Quindi se puoi distruggere l’economia puoi diminuire la popolazione di base e ciò significa che moriranno miliardi di persone a causa di carestia, malattie e guerre. I russi hanno capito tutto ecco perché Putin sta spingendo affinché venga estirpata la droga in Afghanistan, ad esempio. Anche molte persone in America hanno compreso questo e stanno cercando di portare avanti progetti come NAWAPA, il progetto tecnologico più ambizioso del mondo.

Basta guardare alla storia più recente se non mi credi. Il crollo del sistema Bretton Woods, cioè il sistema che permetteva lo scambio delle valute, o lo scambio fisso della valuta distrutto da Nixon nel 1971,o il modo in cui l’FMI si sia trasformata in un’agenzia atta a servire l’Impero invece che fungere da agenzia di decolonizzazione come era inteso dalla FDR nel progetto iniziale… Dal sistema di cambio della valuta fisso si è dunque passati a quello speculativo fluttuante e alla creazione di un nuovo gruppo l’Inter-Alpha Club, l’apparato bancario oligarchico controllato da Jacob Rothschild, proprio il sistema che ha creato la bolla speculativa di cui siamo tutti vittime.

Gli inglesi hanno creato, attraverso l’operazione Inter-Alpha un apparato finanziario strutturato in modo tale che fosse abbastanza solido per poter attaccare gli Stati Uniti e faccio diversi esempi: la truffa del petrolio negli anni 1973-74; il petrolio come risorsa unica per il mercato mondiale, la nascita dell’euro dollaro, i mercati dell’euro bond, l’espansione del sistema bancario così come lo conosciamo oggi e con il potere che ha oggi (tramite l’utilizzo del denaro e del denaro “dopato”) ecc.. Tutti meccanismi che hanno avuto origine a Londra.

Una volta che si è deciso di fabbricare la “bolla”, il tutto diventa un meccanismo a schema piramidale. E’ in questo modo che avviene la sistematica rottura del profitto finanziario reale a vantaggio della speculazione economica su basi virtuali. Si è creata così “la distruzione della domanda” iniziale applicando una separazione netta dalla realtà. E’ come aver voluto giocare in un’ampia sala d’azzardo. I cosiddetti strumenti derivati (quegli strumenti finanziari o titoli il cui prezzo si basa sul valore di mercato di uno o più beni, ndr) sono in realtà elementi di azzardo sui movimenti dei vari strumenti a disposizione: come titoli di stato, valute, interessi rateali o obbligazioni. Su tutto ciò, si applicano delle speculazioni e si scommette su come ogni azione speculativa agirà sul mercato. In questa maniera si continuano ad affastellare derivati su derivati (come ad esempio quello sui mutui, che sono stati usati come benzina per fornire il meccanismo dei derivati). Ecco come l’intero sistema, derivato su derivato è imploso nel 2007 fino a oggi. Voila! I vari Rockfeller e Rotschild non vengono toccati da questa crisi perché posseggono già tutto: coloro che erano già molto abbienti sono rimasti tali infatti. L’élite vuole che il resto del mondo muoia. Il termine giusto per tutta questa operazione è uno solo GENOCIDIO.

P.I.: La storia di Victor Bout (di origine ucraina, arrestato in Thailandia nel 2008 ed estradato negli Stati Uniti nel 2010, tra le proteste russe, con l’accusa di terrorismo) che è ampiamente spiegata ne “L’Impero Invisibile” è parallela a quella di Lee Oswald accusato dell’omicidio di J.F. Kennedy oppure all’attacco alle Torri Gemelle del 9/11? Come puoi spiegare, se così è, il tutto in poche parole senza cadere nella teoria del complotto, che è poi l’accusa più facile da fare in questi casi?

La storia di Victor Bout è molto semplice. Era conosciuto, nel mondo criminale e giudiziario, come “Il Mercante della Morte”, il maggior trafficante di armi nel mondo. Appellativo e fatti falsi entrambi, a parte il film sulla sua storia interpretato da Nicolas Cage (“Lord of war” 2005, regia di Andrew Niccol ndr). Vedi, gli USA hanno due grandi nemici nel mondo: la Russia e la Cina. La Cina è sì una potenza economica, ormai, ma non militare. I cinesi, anche se la cosa può sorprenderti, non hanno la minima idea di come si costruisca una mini bomba nucleare (nel libro Estulin fa diversi esempi di come molti degli attentati accaduti negli anni della storia recente di dimensione altamente mortale siano dovuti in realtà a esplosioni nucleari, ndr). Non ne posseggono la tecnologia adatta quindi non possono competere con le altre potenze protagoniste nella corsa alle armi. La Russia, al contrario, è senz’altro una potenza militare ma non economica, dunque esistono molte modalità per debilitare una nazione che non possiede l’una o l’altra. Se sono riusciti a convincere il mondo intero che Bout è stato in grado di vendere miliardi di dollari in armi è stato solo perché una vasta nazione (leggi Russia) ha fornito quelle armi. Ecco come la Russia diviene d’improvviso quella che ha maggiormente violato l’embargo sulla vendita delle armi, minando per sempre la sua credibilità. Ma la vera ragione per cui Bout è diventato agli occhi di tutti il capro espiatorio principale ha a che fare con ciò che ha realmente colpito il pentagono il 9 settembre del 2011, quando sono crollate le due Torri del WTC. Non fu un aeroplano, ormai le persone con un minimo di sanità mentale lo capiscono. Ma questo fatto fa parte di un’altra storia molto più grande magari per un’altra intervista…

P.I.: Puoi parlarci della tua esperienza nel KGB? Ti ha aiutato nel reperimento del materiale usato per le tue ricerche e nei contatti a livello internazionale? E se quella tua esperienza ha cambiato in qualche modo il tuo punto di vista nel guardare il mondo.

Sono un patriota, sono russo. Indosso il mio patriottismo come un vessillo d’onore (come tutti dovrebbero fare verso il proprio paese). L’Italia tuttavia non esiste più come nazione: è stata sostituita dall’Unione Europea che non rappresenta affatto unità, ma è piuttosto una dittatura: la valuta non è quella vostra, la vostra bandiera è ora tutta a stelle e strisce e la vostra Costituzione è subordinata ormai a quella europea. Il vostro Primo Ministro Mario Monti, che i cittadini non hanno scelto, semplicemente sta trasformando l’Italia in un buon fedele partner europeo: la sta distruggendo come un traditore che dovrebbe essere incarcerato. E il fatto che giri libero per l’Europa millantando l’importanza del suo ruolo è il risultato di ciò che i cittadini italiani sono diventati col tempo, senza più una morale a guidarli. Mi dispiace essere uscito un po’ dal tema della tua domanda. In merito all’esperienza del KGB, il mio punto di vista non è modificato, perché io capisco i fatti della storia. In Africa, ho speso ad esempio abbastanza del mio tempo per capire le cose inimmaginabili che stanno accadendo e di cui non posso parlare qui.

Diciamo comunque in generale che lungo il corso degli anni ho avuto la possibilità di accedere a una mole di informazioni che mi sono stati molto utili per comprendere le dinamiche di alcuni eventi tra i più importanti del secolo passato. Almeno 1000 anni di storia in cui semplicemente ho scavato come un topo da biblioteca: un lavoro lento, a volte tedioso tra archivi governativi e biblioteche nazionali.

P.I.: Come possono fare I giovani le future generazioni? Che arma hanno dalla loro? Alla fine del tuo libro pronunci un auspicio per loro e per l’umanità, in genere, affermando che il destino e la verità possono salvarci facendone una buona mescolanza.

Intendevo dire che i giovani dovrebbero comprendere fino in fondo il senso della loro “immortalità”. Cosa significa essere vivi insomma. Perché siamo qui? (Che è un po’ la domanda dei secoli..) Tutto si riduce a un problema morale: la questione del destino dell’umanità. Ogni generazione che segue deve proseguire l’azione di chi l’ha preceduta. E che alla fine del percorso sulla terra di ognuno nella mente deve essere chiaro che ciò che si ha creato ha significato qualcosa, ha cioè messo le fondamenta per lo sviluppo e il progresso delle vite altrui. La diversità culturale non rappresenta soltanto un marchio come un altro del progresso dell’umanità, bensì essa è anche la migliore assicurazione contro l’estinzione delle specie. Una volta che una nazione affonda le proprie radici, le proprie origini espletandosi come nazione, il concetto stesso di nazione come tale non si estingue più. Rimane tuttavia solo in attesa che si succedano altri coraggiosi e integri esseri umani che la difendano, in modo tale che quel concetto si rafforzi sempre.

Dovremmo dunque essere l’una per l’altra una fratellanza di nazioni, di nazioni sovrane – unite da un obiettivo comune che sia teso verso lo sviluppo dell’umanità. Fino a quando riusciremo a tradurre l’essere umano verso l’Età della Ragione, la storia si rivelerà sempre in attualità; un percorso che non sia guidato dalla volontà di pochi ma dalla semplice voglia e spinta ad agire che a seconda del bene o del male conduca il fato umano in modo naturale. Al pari di una mandria di bestiame che affronta i vari passaggi del transumare o del pastorizzare così come deve essere. Un cammino che a volte, com’è nell’ordine naturale delle cose, può portare anche verso il mattatoio, la distruzione.

PPP, una polemica inversa: una mostra ispirata ai versi di Pasolini

Pubblicato su Periodico Italiano daily il 24/10/12

Si avvicina l’anniversario del massacro di Pier Paolo Pasolini,avvenuto all’Idroscalo di Ostia  nella notte fra il 1° e il 2 novembre del 1975, che ha sottratto all’Italia la voce più libera e autentica del ’900, interrompendo così una produzione letteraria artistica e saggistica  al culmine della sua espressione, e anche quest’anno (in realtà succede per fortuna ormai da qualche anno) si avvicenderanno, incrociandosi e alternandosi, gli eventi culturali che ricordano o si ispirano alla sua opera.

Un’opera tanto eclettica nei suoi diversi approcci e generi  che lascia spazio, a chi ne ha voglia e anche a chi ne ha la possibilità e il talento, di esprimersi o ricordarla magari lasciando un segno e una scia alle generazioni future e per i “giovani” di oggi: sia a raccoglierne l’eredità che, volendo, a trasformarla perché gli emuli non servono, a volte anzi si rivelano deleteri.

Tra i prossimi eventi degni di nota (oltre a un’interessante passeggiata letteraria che si terrà sabato 27  ottobre con partenza dalla “Feltrinelli” di Viale Marconi a Roma, guidati dallo scrittore Frank Solitario)  sicuramente la mostra che si terrà presso il “Palazzo Incontro” di Via dei Prefetti, 22, a Roma il giorno 30 ottobre dalle ore 18.00. La mostra proseguirà nel corso dei giorni successivi con data finale da comunicare.

L’iniziativa, che prevede  due giornate di approfondimento sull’opera di Pasolini, si avvale del supporto di un comitato scientifico formato da Carla BenedettiAchille Bonito OlivaGianni Borgna e Dacia Maraini. Ideata e organizzata dall’”Associazione culturale Teorema“.

E’ una mostra d’arte si, ma il progetto  sembra voler aprire ad altro di più ampio respiro, come appunto a voler convogliare tutta l’arte   in cui il poeta di Casarsa, che ha trascorso un periodo importante nella Capitale dal 1955 fino alla sua morte,  si è espresso: ventidue artisti, undici poesie, opere fotografiche, quadri e sculture.

Si parte però da una specificità che caratterizza la mostra tutta e che ne vede al centro l’opera poetica di Pasolini: undici componimenti in versi tratti da Le ceneri di Gramsci, La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa, Trasumanar e organizzar, saranno rielaborati creativamente da due generazioni diverse di artisti, alcuni tra i più importanti pittori, scultori e fotografi operanti nel panorama italiano e internazionale:Claudio Abate, Carla Accardi, Gianfranco Baruchello, Matteo Basilé, Veronica Botticelli, Laura Canali, Giuseppe Capitano, Gianni Dessì, Mauro Di Silvestre, Rocco Dubbini, Giosetta Fioroni, Nino Giammarco, Franco Gulino, Jannis Kounellis, Elena Nonnis, Nunzio, Giuseppe Pietroniro, Michelangelo Pistoletto, Oliviero Rainaldi, Pietro Ruffo, Maurizio Savini, Sten & Lex.

Una conferenza stampa rivolta ai giornalisti alle ore 12, a cui parteciperanno Nicola Zingaretti, il critico d’arte Achille Bonito Oliva, lo scrittore e saggista Gianni Borgna e il curatore della mostra Flavio Alivernini, aprirà la giornata inaugurale. La mostra ha avuto il patrocinio della Provincia di Roma.

Diversamente Stabili: il teatro dell’opposizione. Debutta la seconda edizione

articolo pubblicato il 14/10/12 su Periodico Italiano link originale

Ieri sera 13 ottobre presso il Teatro Abarico del quartiere San Lorenzo di Roma ha preso il via la stagione teatrale riferita alla seconda edizione del concorso “Diversamente stabili” che riempirà poi le serate della intera stagione 2012/2013.

Il concorso, per chi non ne conosce i dettagli,  stabiliva  la selezione di tre  corti teatrali della durata massima di 15-20 minuti  l’uno senza tema prefissato. In genere prevede anche un limite nell’uso dei personaggi: tre.
Per il debutto di ieri sera, i  corti scelti dai testi di tre autori  sono stati affidati a tre giovani registi e organizzatori dell’associazione “Gnut”: Lorenzo Ciambrelli, che ha diretto il corto “Fermo Napoli” (autrice Luigia Bencivenga), Giacomo Sette per il corto “Ma venga pure il mattino” (autrice Angela Villa)  e Tommaso Zaccheo con “Gangbank” (autore Rocco Manfredi).

Chi scrive è lieta di abbandonare il termine “sperimentale”, affibbiato ormai a ogni tipo di rappresentazione che contenga poca o scarsa  trama,  considerazioni e riflessioni di carattere universale e musica per “marionette”. Ne è lieta non per il genere in sé che dovrebbe essere sinonimo di avanguardia e unicità, ma per l’uso smodato che se ne fa  spesso dando allo stesso un valore pressoché vacuo.

Il termine sperimentale invece in questo caso specifico va abbandonato perché  ad esso va senza dubbio a sostituirsi con quello di “opposizione”. Il teatro di opposizione è quello che è andato in scena ieri sera all’Abarico perché prende il posto delle funzioni sociali e politiche che oggi mancano riuscendo anche a dare al pubblico la parte di intrattenimento e di leggerezza (nel senso calviniano della parola) che meritano gli spettatori dopo una settimana colma di incombenze, problemi, diritti e doveri.

I tre corti rappresentati ieri non possono valutarsi tutti allo stesso modo, ma tutti hanno testimoniato della varietà e della potenzialità che un simile approccio alla rappresentazione teatrale, tra avanguardia, critica sociale e politica  e interazione con il pubblico, contiene.

Fra i tre testi, meritevole di nota è sicuramente quello di Angela Villa “Ma venga pure il mattino” dove il mattino corrisponde alla speranza che una giovane madre testimone di giustizia (nonostante le privazioni che la sua scelta di aiutare lo Stato nella lotta alla criminalità ha determinato) nutre ancora verso il futuro. Molto sottile anche la scelta del regista Giacomo Sette di suddividere le diverse fasi dell’esperienza negli stati d’animo di quattro giovani donne, una delle quali interpretava la figlia. Un testo e una regia che, seppure declinato nell’approccio artistico, non hanno nulla a che invidiare a trattati di mafia e sintesi giuridiche.

L’interpretazione migliore, senza però  una forte base testuale a supportarla, è stata sicuramente quella degli attori di “Gangbank” diretto dal giovane Tommaso Zaccheo:  Giuseppe Rispoli (il mozzo), Nika Perrone (l’ammiraglio), Giuliano Leva (il generale).

Chi scrive conosce uno degli attori in scena  e quindi forse mi si potrebbe tacciare di parzialità, preferisco dunque dichiararlo. Posso solo dire che così non è per la  quasi totale  positiva corrispondenza di opinioni raccolte tra il pubblico, sia durante la rappresentazione che successivamente nei commenti. Le metafore riguardanti la crisi economica, l’alienazione sociale, l’aggressività cui questo tempo ci ha condotti pensando ognuno solo al proprio io a discapito degli altri (sublimata nella “morte” nel  corto), lungo il corso di un naufragio del luogo e dell’anima, sono riuscite a colpire credo tutti, grazie all’ottima e intensa  interpretazione degli attori. Soprattutto dell’attrice Nika Perrone (che non corrisponde alla personale conoscenza di cui parlavo), la quale ha saputo far dimenticare chi seguiva addirittura l’appartenenza a un genere, quello femminile. Infatti l’aggressività e l’input alla violenza anche psicologica appartiene a donne e uomini. Non c’è sesso debole.

L’ultimo corto che ha portato in scena un argomento sempre presente e forte come lo stupro, invece, non ha parimenti colpito né per il testo, che scarsamente emergeva, né tanto meno per l’interpretazione (certo nel limite contenuto in un’opinione) un pò monocorde e anche monotona senza vigore e senza marcata differenza fra vittima e carnefice. Forse l’intento del regista e dell’autrice era proprio questo ma la comprensione a chi scrive per definire questa ipotesi sfugge.

Un fatto è certo se per “abarico”, termine che ha dato il nome al Teatro di Via dei Sabelli, si vuole intendere assenza di pressione e di oppressione come l’etimologia della parola richiama (ossia ogni punto in cui la forza gravitazionale terrestre  e quella lunare si annullano a vicenda) il risultato con il via alla seconda edizione della stagione ispirata al concorso “Diversamente stabili”, è sicuramente centrato e carico di potenzialità artistiche e autoriali.