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Milano ’93: la strage dei buchi neri

Immagini scattate dai Vigili del Fuoco il 28 luglio 1993 (gentile cortesia del Padiglione Arte Contemporanea)

In occasione della commemorazione della strage di via Palestro 1993, una visita guidata speciale alla mostra di Luisa Lambri ho ripercorso con il curatore Diego Sileo le fasi dell’attentato e le inchieste che ne sono seguite.

Le opere fotografiche di Luisa Lambri, che si relazionano con le qualità uniche dell’architettura disegnata da Ignazio Gardella per la quale la mostra è stata appositamente progettata, saranno il punto di partenza per raccontare anche un episodio doloroso della storia del Padiglione, un trauma che segnò la storia di Milano e dell’intero paese.

Tre boati che squarciano l’Italia nella notte fra il 27 e il 28 luglio 1993, due a Roma mentre uno colpisce Milano: tre boati e una sola verità, rimasta incompleta, monca. Alcuni autori, altrettanti complici, alcune modalità e soprattutto i mandanti, troppo ancora resta oscuro a 29 anni dalla strage di via Palestro a Milano. Mese, quello della bomba al Padiglione d’Arte Contemporanea (PAC), funestato, tra l’altro, dal culmine raggiunto dall’inchiesta Mani Pulite e dal suicidio, 4 giorni prima, di Raoul Gardini che doveva rendere testimonianza all’ex pm Antonio Di Pietro.

La strage di via Palestro, in particolare, uno dei sette attentati compiuti durante il biennio 1992–1993, e avvenuto il 27 luglio di 28 anni fa, è uno di quei giorni in cui i buchi neri faticano a riempirsi. Cinque morti, dodici feriti: il veicolo è esploso uccidendo uno dei Vigili urbani (Alessandro Ferrari), tre Vigili del Fuoco (Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno) e un cittadino extracomunitario (Driss Moussafir) che si trovava sul luogo.L’esplosione ha danneggiato il muro esterno del PAC e il sistema di illuminazione pubblica dell’area. Persino i vetri delle abitazioni a circa 300 metri di distanza andranno in frantumi. Poi anche la condotta del gas, posta al livello sotterraneo, prenderà fuoco. E all’alba del mattino dopo esploderà anche una sacca di gas formatasi proprio sotto il PAC, distruggendone una gran parte. La seconda esplosione lesionò infine parzialmente l’adiacente Galleria d’Arte Moderna.

Sette attentati che hanno funestato quel biennio, dicevamo: le stragi di Falcone e Borsellino; l’attentato di via Fauro a Roma, dove obiettivo era il giornalista Maurizio Costanzo, rimasto illeso; le autobombe di Firenze in via dei Georgofili e, ancora, le chiese di Roma; infine, in mezzo, Milano, città già ferita con la madre delle stragi, quella di Piazza Fontana. E poi un ennesimo, quello tentato il 31 ottobre ’93 sempre a Roma presso lo stadio Olimpico. Un attentato non riuscito, questo, che doveva fare strage dei carabinieri. Le indagini sugli attentati, ma anche su quello mancato, confluirono poi presso la Procura della Repubblica di Firenze nel dicembre del 1994, in quanto luogo, Firenze, ove è accaduto il fatto più grave (secondo quanto stabilisce l’articolo 16 del codice penale): una famiglia intera di 4 persone, uno studente e 41 feriti.

Ma quel 27 luglio a Milano durerà molto di più che il tempo dell’esplosione stessa avvenuta alle 23.14; più dell’ora scarsa che rimaneva per passare a un giorno nuovo. I momenti paralleli che segnano il racconto dell’eccidio di via Palestro sono quelli che restano infatti più all’ombra degli altri (rispetto a esempio al momento dell’esplosione, o quando i vigili del fuoco si avvicinano all’autobomba che farà di loro carne viva, oppure, ancora, il momento dell’intervento dei loro colleghi per spegnere le fiamme e cercare di “salvare il salvabile”; persino la foto del motore dell’autobomba sbalzata via e poi immortalata dagli scatti dei pompieri). Uno dei sopravvissuti, Massimo Salsano, che ha iniziato il suo servizio presso i Vigili del fuoco proprio in quell’anno, nell’unità che poi è intervenuta, ci riferisce che le priorità in quei momenti senza tempo sono due: salvare le persone e mettere in sicuro il luogo, e cercare di non spazzare via elementi utili alle indagini. Ma quest’ultima cosa non ha certo la priorità sulla prima e il tempo per prendere decisioni è minimo. Oggi esiste il Nucleo investigativo anti-incendi (NIAT), allora nel ’93 no, ma le attenzioni, certo meno scientifiche, esistevano lo stesso. Salsano, quella sera in servizio e oggi in pensione, e il cui corpo è stato sbalzato di circa 70 metri mentre veniva raggiunto dal motore dell’autobomba (la quale non sbalzerà di 300 metri come invece spesso si ricostruisce: su questo Salsano è categorico) è stato riconosciuto insieme agli altri una “vittima del terrorismo”. È lui che insieme ai colleghi ha visto subito il fumo bianco fuoriuscire dall’auto: quello prodotto dalle micce catramate che lo emanano, come recita il documento della sentenza sulla “valutazione delle prove”, e che prendendo fuoco emette l’odore caratteristico del bitume bruciato.

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Il riconoscimento dato alle vittime di terrorismo (decedute o ferite) per questa strage (legge 204/2006) già di per sé definisce quel fatto: più terrorismo che mafia. La strategia di Cosa Nostra in tal senso comincia a cambiare già alcuni anni addietro con l’omicidio di Rocco Chinnici ucciso da un’autobomba il 29 luglio 1983. Anche se le stragi del decennio successivo hanno qualcosa di diverso oltre alla mafia, qualcosa di altro, di estraneo. Su questo aspetto, le indagini del più recente biennio, vanno comunque lette insieme ai processi da poco celebrati e quelli in corso fra Caltanissetta, Palermo e Reggio Calabria.

Esistono però rispetto ai fatti elencati prima, sulla strage di Milano, tutta una serie di eventi piccoli e grandi che
li precedono, che sono a essi contemporanei e che, infine, li succedono, i quali si fanno fatica a inquadrare per bene. E a oggi non sono riusciti a inquadrarli nemmeno inquirenti e magistratura. Sono spesso però momenti fondamentali per la ricostruzione tutta di quanto accaduto. E proprio per questo restano ancora parziali o completamente oscuri.

Il buco nero per antonomasia di quel giorno a Milano, a esempio, resta, a fronte di un quadro quasi completo, il percorso che fa il tritolo all’interno dell’autobomba scelta per l’esplosione di via Palestro. Nessuno sa come è arrivato lì e chi, dei mafiosi coinvolti nel processo, sia stato. O se sia stato qualcuno di esterno, forse qualcuno che con sicurezza anche di sera non poteva essere individuato. Sicuramente nessuno di cui un collaboratore ha potuto riferire con certezza a oggi. Dei luoghi usati per la logistica invece ormai si sa tutto (un pollaio in provincia di Varese e un’abitazione di Arluno). Ma chi portò in via Palestro la Fiat Uno imbottita di esplosivo, e chi guidò l’auto di appoggio del gruppo di fuoco mafioso che operò a Milano, poche ore prima che a Roma altri uomini della stessa struttura facessero esplodere autobombe contro le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, di tutto questo ancora nulla si conosce. Solo due anni fa per questa parte di azione è stato assolto Filippo Marcello Tutino, inizialmente accusato dal pentito che più di tutti su quelle stragi ha dato il suo contributo, Gaspare Spatuzza. Tutino è stato assolto nel 2018, in via definitiva, dall’imputazione di essere stato il presunto basista della strage. Stando alle indagini della Dda milanese era accusato di aver partecipato al furto dell’auto che poi saltò in aria e di aver fornito supporto logistico agli esecutori materiali.

Una strage che ha anche trascinato con sé due morti collaterali: quella di un affittacamere romano, Alfredo Bizzoni, il cui ruolo è stato fondamentale per facilitare il collegamento Roma-Milano; e quella di un criminale calabrese, Antonio Scarano, considerato una sorta di jolly degli stragisti vicino a boss come Matteo Messina Denaro, l’uomo di punta quest’ultimo – insieme a Giuseppe Graviano – nell’organizzazione di quelle stragi. Bizzoni fornì tre appartamenti a Roma al commando di Gaspare Spatuzza e se la cavò con una condanna a un anno e 10 mesi. Morto suicida, ma in circostanze strane, nel 2015, a Bizzoni due anni prima gli avevano confiscati beni per 15 milioni di euro e di Scarano, morto d’infarto nel 1999 mentre era sotto protezione, riferì i propri dubbi al riguardo sottolineando come lo stesso giorno entrambi dovevano effettuare il confronto in tribunale. Bizzoni sapeva qualcosa sulla trattativa Stato-mafia.

Ma a parlare di «sequenze parallele» è stato proprio il magistrato che prima di tutti indagò sulle stragi e che istruì una parte di inchiesta sui soli mandanti, la quale a oggi è seguita da altri pm come Luca Tescaroli. Filone che si apre e si chiude spesso nel silenzio generale. Buona parte di quello che poi diverrà a Palermo il famoso processo trattativa Stato-mafia, il cui dibattimento di secondo grado, mentre scriviamo, è quasi agli sgoccioli, lo dobbiamo al pm Gabriele Chelazzi morto nel bel mezzo delle indagini il 17 aprile 2003. Pronunciò queste parole Chelazzi, durante un’audizione alla Commissione antimafia del 2002 (dove non gli fu permesso però successivamente di completare il suo intervento): «Ci sono le sequenze parallele che riguardano vicende interne di cosa nostra, dinamiche di supremazia, eliminazioni, anche nel senso fisico del termine, di capi famiglia e di capi mandamento». Non solo, tra il 2002– 2003, poi, «il magistrato aveva raccolto una documentazione straordinaria e ricomposto un quadro impressionante su ciò che era accaduto con due Governi tecnici: nelle ultime settimane dell’esecutivo Amato e, soprattutto, lungo tutta la durata del Governo Ciampi», si legge anche nella relazione finale di un’altra Commissione quella presieduta da Beppe Pisanu nel 2013.

E se dobbiamo ricordare quei momenti paralleli rimasti inesplorati o poco indagati, o comunque senza una spiegazione, a esempio non possiamo non parlare della presenza di una donna bionda (il cui identikit somiglia allo stesso fatto per la strage di via Fauro a Roma), allora giovane e il cui ruolo in questi ultimi periodi le inchieste televisive che si sono occupate delle stragi hanno fatto riemergere. La prima volta che il suo identikit è comparso fu sul quotidiano l’Unità a soli due giorni dalla strage, il 29 luglio del 1993. Su questa donna la Procura di Firenze sta ancora indagando. Più volte associata, la donna, a un altro personaggio, ormai deceduto, cosiddetto Faccia da mostro, alias il poliziotto Giovanni Aiello, che secondo attività inquirenti era inserito in una struttura composta da servizi segreti, cosiddetti deviati. L’uomo, morto nel 2017 come un semplice pescatore ma le cui intercettazioni nel tempo hanno riferito ben altro, sarebbe intervenuto su molti fatti oscuri di mafia. La donna si è più volte indicata come appartenente alla struttura militare segreta Gladio, nota anche come Stay Behind operativa in modo occulto tra gli anni del secondo dopoguerra e, almeno ufficialmente, il 1990.Anche a via Fauro, a Roma, dove hanno rischiato la vita Costanzo e sua moglie, inizialmente un testimone disse di aver visto una giovane donna parlare con un uomo che era seduto al volante di quella che poi si rivelò l’autobomba, quando questa era già parcheggiata in via Fauro, alcune ore prima dell’esplosione. A Milano, invece, la donna sarebbe stata vista da altri testimoni verso le 22.30 di martedì 27 luglio accanto all’auto che poi salterà in aria: capelli lunghi, carnagione chiara, corporatura snella, lineamenti regolari, sui 27 anni. Mezz’ora dopo, 15 minuti prima dell’esplosione, una coppia di giovani passanti segnalerà ad una pattuglia di vigili urbani che, da quell’auto, parcheggiata davanti alla Villa Reale, usciva del fumo. I due si sono quindi allontanati, mentre i vigili hanno chiamato i pompieri. Di quei testimoni si è persa traccia.Di una donna, ma mora, poi si è anche eseguito un fotofit per la strage di Firenze, forse la stessa con una parrucca. Forse. Solo della bionda si è fino a oggi azzardata un’identità ma su di lei era già stata aperta un’indagine poi archiviata. L’ennesimo segreto (non mistero) di queste stragi.

Bionda Jpeg

Dentro le carte di questa storia di bombe e mafia è finito come indagato, per un tratto, anche l’ex terrorista nero Franco Freda, lo stesso coinvolto nella strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 avvenuta sempre a Milano.A riferirlo un detenuto che parlò ai magistrati di una confidenza fattagli in carcere dall’ideologo della (de)stabilizzazione. Freda era già stato arrestato nel 1993 con l’accusa di ricostituzione del disciolto partito fascista ed incitamento alla discriminazione razziale, all’odio e alla violenza. Per Pomarici c’era dunque anche la possibilità di una pista nera da seguire per le stragi “in continente” (indagò anche su un altro fedele di Freda, Cesare Ferri). Pista poi archiviata.

Non è la prima volta che si accostano matrici politiche alle stragi di mafia visto che proprio Giovanni Falcone era fermamente convinto della responsabilità penale nell’omicidio di Piersanti Mattarella, avvenuto nel 1980, dell’ex terrorista dei Nar Valerio Fioravanti di cui aveva chiesto l’arresto. Convinzione che proprio di recente, in un documento desecretato dall’attuale Commissione Antimafia, emerge chiaramente e senza ambiguità da parte dello stesso Falcone che nell’audizione, ora disponibile a tutti, indica anche la possibilità di mandanti esterni, oltre a una parte della cupola mafiosa, per l’omicidio del fratello del nostro Presidente della Repubblica. E visto anche il ruolo svolto da un membro di Cosa Nostra a Capaci, Pietro Rampulla, esperto di esplosivi ma proveniente da Ordine Nuovo, l’organizzazione terroristica degli anni ’70 che a Padova e nel Veneto in generale aveva proprio come “dirigente” Freda. Nome questo, di Pietro Rampulla, che anche spunta nel 1993.

A definire il perimetro e l’obiettivo di queste stragi tra Firenze, Milano e Roma è sempre però il pm Chelazzi che, pochi giorni prima di morire di infarto, in un colloquio poco noto all’opinione pubblica con il generale del Ros Mario Mori dell’11 aprile 2003, sentito come persona informata sui fatti, cerca di capire, leggendo dall’agenda personale che l’ufficiale aveva messo a disposizione degli inquirenti, se alcune informazioni lì indicate dagli appunti del Generale potevano riuscire a fare luce su quei «pezzi mancanti» della strage. Domande sulla sua posizione riguardo al 41 bis (anche oggetto di valutazione del processo trattativa), su alcune sue conoscenze (in particolare un giornalista che aveva avuto, lui solo, il placet da Riina per essere intervistato, e che Mori conosceva bene). Ma quello che perimetra Chelazzi durante quel colloquio è fondamentale e allo stesso tempo, in parte, nuovo anche rispetto a quanto da sempre si scrive e afferma. Per quanto riguarda Roma e Firenze – dice Chelazzi – si ha la chiara intenzione di colpire i monumenti e la Chiesa: messaggio diretto alle gerarchie ecclesiastiche, inerti secondo i riscontri emersi, di fronte alle “dure condizioni dei mafiosi”; invece per quanto riguarda Milano, e qui sta la particolarità di questa analisi, si è inteso colpire simbolicamente la stampa, non l’arte ma l’informazione. Questa motivazione viene anche spiegata dal magistrato dal fatto che secondo i collaboratori e i complici della strage l’obiettivo vero non era il PAC quella sera. C’è stato un errore di 200-300 metri. E a quella distanza in effetti vicino a via Palestro, in via Cavour si trova il Palazzo della Stampa, passaggio tra i due edifici percorribile a piedi in circa 4 minuti. D’altronde, come sempre sottolinea Chelazzi in questo interrogatorio dove Mori è poco loquace, “questa storia inizia con un giornalista”: ossia il 14 maggio del ’93 con l’attentato a Costanzo che in quei giorni era molto impegnato contro la mafia nelle sue trasmissioni.

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Se il PAC è stato frutto di un obiettivo mancato, e se la distruzione di gran parte della struttura è avvenuto “per sbaglio”, se quelle morti sono avvenute per “sbaglio” (per inceppamento dell’esplosivo durante l’avvio della carica e quindi ritardo nell’esplosione), ma raggiungendo ugualmente l’obiettivo contro lo Stato, un museo di particolare visibilità già allora, il sapore che resta in bocca è ancora più amaro, il colore che esce fuori dal quadro ancora più torbido. E quei buchi neri è sempre più urgente riempirli, anche prima del prossimo anniversario: chi sono gli esterni della strage e delle stragi, chi i mandanti o i complici?

Simona Zecchi

simozecchi@gmail.com