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L’Audio-Documentario si fa associazione per una produzione indipendente. Intervista con Roman Herzog.

Il documentarista tedesco autore de ˝Il Patto˝ sulla riapertura delle indagini della morte di Pier Paolo Pasolini, risponde alle nostre domande.

L’Associazione Audiodoc nata nel 2006 dalla volontà di autori e documentaristi indipendenti riuniti. Uno strumento e un modo di lavorare ritenuti superati dai media odierni ma che andrebbero riscoperti per creare un pubblico e una professione “nuovi”.

R.D.: Com’è nata l’idea di creare un’associazione di audio-documentaristi? E’ una scelta dettata dall’assenza in materia di qualcosa di simile in Italia oppure è una mancanza europea più generale? 

Lavoro come audio-documentarista per la radio pubblica tedesca dal 1998. In Germania, come in quasi tutti i paesi europei (con poche eccezioni, come il Lussemburgo) produrre documentari sonori è considerata una vera e propria professione, attraverso la quale si può vivere. 

Nel 2003, trasferendomi in Italia, ho cominciato a contattare autori di documentari sonori. Scoprii che la RAI non trasmetteva più audio-documentari ma nel 2005 conobbi l’audio-documentarista romano Andrea Giuseppini. Andrea mi spiegò il motivo di questa “soppressione”: dall’inizio degli anni 2000, infatti, gli spazi e i tempi per documentari di un certo spessore sono stati mano a mano cancellati. 

Andrea Giuseppini ha lavorato per anni nella RAI come audio-documentarista, e quando perse la possibilità di lavorare in radio a causa di questa soppressione, continuò ad auto-produrre audio-documentari, cercando al contempo fondi in altri settori: fondazioni, enti locali o regionali, associazioni, ecc. Fondò così il sito Radioparole.it. Poiché anche io avevo iniziato a produrre da solo, portando in giro i miei lavori in italiano in occasioni di dibattiti, presentazioni, ecc, mi associai al sito.  Questa forma di ascolto collettivo (ripresa anche in Germania dagli anni ’90) è un tipo di comunicazione che si pone come (r)esistenza culturale in fondo,  che si oppone alla moda ormai del tempo, fatta di invasioni di immagini che spesso non comunicano niente; anzi, rappresentano una sorta di svuotamento della forza critica e dell’informazione. L’ascolto ha al contrario una potenza enorme, utile anche per ricreare la capacità di concentrazione e d’intervento. Gli autori non sono scomparsi, piuttosto sono stati abbandonati dalla radio pubblica e quindi rimasti senza “pubblico”.  Fu allora nel 2006 che con Andrea pensammo di fondare un’associazione che raccogliesse gli audio-autori e che fosse da stimolo per quelli nuovi. Altri fondatori di Audiodoc sono: Marcello Anselmo, Anna Maria Giordano, Lea Nocera e Sara Zambotti, tutti autori radiofonici. Oggi siamo in diciassette tra autori e autrici (più donne che uomini) con temi e linguaggi artistici molto diversi. Lo scopo di Audiodoc era ed è di essere più forti e insieme supportandoci nella produzione, nella formazione e nella comunicazione e dare maggiore visibilità al settore, stimolando allo stesso tempo la nascita di nuovi autori.

R.D.: Su cosa vi orientate nella vostra produzione: inchiesta, fiction o documentari sonori puri in sé? 

Le produzioni sono molto diverse e vanno da narrazioni più o meno personali; reportages e inchieste; ritratti sonori di paesaggi o personaggi, fino alla costruzione della storia e della memoria. Navigando nel sito (http://www.audiodoc.it/), ad esempio, è possibile scoprire i temi diversi che trattiamo, l’ambiente o la salute; conflitti e guerre; il lavoro o altri temi sociali, come quello dell’emigrazione, ecc. L’audio documentario non ha limiti come forma di racconto.

Da un anno inoltre abbiamo introdotto una nuova sezione, che si chiama «cross-media», perché ci siamo trovati al cospetto di lavori che andavano oltre l’audio-documentario in sé: sia dal punto di vista del contenuto sia dal punto di vista formale. Se il documentario è un racconto dei fatti, l’audio dramma o la docu-fiction trattano contenuti di fiction, ma non necessariamente meno reali. Alessia Rapone, ad esempio, ci ha contattato con “Parole in cuffia”, un lavoro che va oltre il documentario in sé perché contiene anche la fiction. D’altro canto, Alexandra D’Onofrio con il lavoro “Sospesi tra l’Oscuritá e la Luce” e Andrea Giuseppini con “KM99. Storie sul fiume Aniene” hanno presentato lavori dai contenuti trasgressivi anche nello stile. Si tratta di due opere, queste ultime, che utilizzano il suono insieme alla parola scritta e alla fotografia, nella forma di un documentario o di un web-documentario. 
R.D.:Quali sono le produzioni che secondo te hanno segnato il percorso dell’associazione in tal senso e che differenza c’è con il giornalismo della carta stampata?
Direi che tutte le opere che fanno parte dell’archivio di Audiodoc oggi hanno segnato la vita dell’associazione, arricchendo non soltanto gli ascoltatori ma anche noi stessi autori-ascoltatori. Rispetto al giornalismo della carta stampata, secondo me, questo tipo di lavoro offre un’autenticità diversa. Nell’audio documentario puoi ascoltare oltre alle testimonianze o i racconti delle persone intervistate anche il modo e il contesto dei luoghi in cui le cose vengono dette. I luoghi, infatti, emettono dei suoni, delle atmosfere, ecc. Poi hai documenti sonori di altre epoche e musiche, che possono far parte di un documentario. Il tutto apre a chi ascolta un mondo d’immaginazioni.
Questo è un po’ il nocciolo della questione: l’immagine che ti viene data dalla TV o dal cinema lascia poco spazio all’immaginazione e spesso non ti dà l’opportunità di guardare oltre, di percepire ciò che è anche nella realtà. Il solo audio ti apre tutto un altro orizzonte. In questo senso l’audio è più autentico e molto simile alla scrittura. Direi che le immagini che ne scaturiscono, oltre a non essere meno vere delle immagini visive, possono avere una durata maggiore e spesso ti “segnano” come esperienze fisiche vere e proprie.
R.D.: I temi sociali, culturali e politici internazionali che affronti nei tuoi documentari potrebbero avere più diffusione con un “normale” mezzo di diffusione?
Ritengo l’audio un normale mezzo di diffusione. In quanti leggono giornali o riviste oggi? So che un documentario mio trasmesso in Germania in media ha intorno ai 60.000 ascoltatori. Le testate per le quali scrivo (ogni tanto scrivo pure articoli, sempre per testate tedesche) arrivano a un pubblico più piccolo. Ma capisco cosa intendi: sicuramente l’ascolto è una capacità che va ricreata, nel senso che in Italia dobbiamo cercare il nostro pubblico, così come l’occasione adatta di crearlo un pubblico, mettendo le persone di fronte al concetto della riappropriazione di un senso  – l’udito – che è andato perso negli ultimi decenni. In questo senso è una grande sfida culturale. Ascoltando un lavoro insieme a “soltanto” 25 persone, il dibattito che ne nasce e il coinvolgimento che vedo nelle persone durante l’ascolto mi dà la cifra della differenza con la sola lettura di un articolo.

R.D.:Com’è l’Italia vista da chi l’ha scelta come posto per la vita?

Mi vergogno di essere tedesco non per la prima volta nella mia vita. Negli anni ’90, quando i nazi-skin ogni anno ammazzavano e bruciavano vive decine di stranieri che avevano chiesto asilo politico in Germania, mi trovavo in Argentina per il quotidiano Pagina/12 e provavo ogni giorno una sensazione d’impotenza, che mi dava però l’input di scrivere sui fatti anche da una certa distanza. 
Oggi vivo in Italia e, vedo le cose sempre con la distanza verso il mio paese, come il governo tedesco si voglia imporre sugli altri paesi europei. È vergognoso e ci dimostra in un certo senso come certe cose non siano cambiate dal 1945 in poi. Sono tedesco, purtroppo o per fortuna e lo rimarrò sempre, ma sto bene qua in Italia: un paese dove tante cose vanno malissimo, dove tante incapacità mentali e culturali impediscono  spesso un pieno sviluppo. Ma nel meridione dove vivo, nonostante tutto e rispetto al processo di modernizzazione avvenuto in Nord Europa, che ha però distrutto tante energie, non vi è stata la stessa violenza. Rimane anzi molto intatta una grandissima umanità che difficilmente trovi nel Nord. E mi auguro di cuore che anche il duo Merkel-Monti non faccia infine trionfare questo tipo di modernizzazione distruttiva. 

Articolo del 28/12/11 su Regione Digitale